I costi del non fare nel Paese a binario unico

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Daniela Bianchi
di DANIELA BIANCHI
Consigliere Regionale del Lazio
dal blog I racconti della Motoretta

 

Io non so se la notizia stia più nel tremendo disastro accaduto ieri nelle campagne di Corato, o se piuttosto la notizia stia nel fatto che nel 2016 ancora dobbiamo raccontarci atrocità di questa portata.

C’è stato un tempo in cui questo Paese ha iniziato a dibattere con tenacia sui costi del non fare. E’ nato addiittura un osservatorio CNF che con dovizia di particolari ci ha spiegato cosa significhi perdersi nell’inerzia amministrativa e burocratica, sia in termini economici che in termini di qualità della vita. La pretesa è quella di misurare l’impatto della mancata o ritardata realizzazione di opere infrastrutturali nei settori dell’energia (elettricità, gas ed efficienza energetica), del trasporto ferroviario (ferrovie alta velocità e convenzionali), della viabilità (autostrade e tangenziali a pedaggio), della logistica (porti e interporti), dei rifiuti e dell’idrico dalla prospettiva dei cittadini o degli operatori economici che quotidianamente utilizzano le infrastrutture, cioè della collettività.

Si è addirittura costutito un gruppo interparlamentare. C’è un sito molto bello patinato chiaro, in cui campeggia una somma in caratteri rossi, cubitali, 640 miliardi di euro. NON realizzare opere infrastrutturali in questo paese ci costa 640 miliardi annui.

Però poi ogni tanto capita che scopriamo che non realizzare opere infrastrutturali in questo paese costa anche morti e feriti. Gli ultimi in ordine cronologico 27 morti e 50 feriti. Due treni uno contro l’altro in una scena apocalittica.

Certo varrebbe la pena di intendersi sul concetto di infrastrutture, ma sopratttutto sulla loro declinazione strategica. Cosa è infrastruttura? Cosa è strategico? Cos’è grande opera? Un ponte sullo stretto di Messina che è entrato nell’immaginario collettivo come quello del ponte delle gomme americane? Un’ autostrada come la BreBeMi su cui transitano 5 auto in croce, ma la cui realizzazione è stata strombazzata come la più grande opera pubbblica che mai si ricordi dai tempi degli acquedotti romani? O come proprio ieri l’aggiudicazione della gara di appalto dell’autostrada Roma-Latina? Nonostante la battaglia combattuta su più fronti per cercare di dirottare i fondi dell’autostrada verso l’ammodernamento della via Pontinia e il rafforzamento del servizio di trasporto pubblico locale.

Varrebbe la pena intendersi su questo concetto, e magari non chiedersi se strategia non sia togliere di mezzo le tratte ferroviarie a binario unico, che ancora insistono nei nostri territori, o dotare le stazioni ferroviarie, le più periferiche di sistemi di comunicazione un po’ più avanzati dei telefoni e dei fax…

A volte ho la sensazione che quando si parla di infrastrutture, dietro ci sia solo l’rresitibile voglia di un riscatto giocato sulle colate di cemento, sulla mastodonticità dell’ingegneria ad esasperato impatto ambientale. I palazzinari del dopoguerra a riscattare valigie di cartone e fazzoletti bianchi a salutare orde di emigranti. Quando non l’illusione di giocare ai grandi economisti muovendo opere e infrastrutture come la caselle di un monopoli. E chissenefrega se poi in un’Italia drammaticamente tagliata in due, si punta sempre sul nord come fosse la conquista del parco della vittoria!

Infrastruttura strategica è la banda larga. Infrastruttura strategica è quella che migliora la qualità della vita di migliaia di cittadini con una mobilità pienamente sostenibile. Infrastruttura strategica è quella che mette nelle condizioni ciascuno degli ultimi di poter colmare il gap che lo separa da una crescita felice. Infrastruttura strategica è il nostro paesaggio, che connette storie tradizioni culture. Infrastruttura strategica è una scuola che funzioni bene. Infrastruttura strategica è la bellezza. La nostra sconfinata incmmensurabile bellezza. Infrastruttura strategica è una architettura ed una ingegneria in grado di generare simboli di armonia.

Apriamo un nuovo fronte. Ora qui subito. E chiediamoci se i veri costi del non fare non siano quelli che hanno impatto sulla qualità della vita dei cittadini. La qualità della vita. Il benessere. E che questo valga indifferentemente ad ogni latitudine del nostro paese.
Allora mi chiedo se accanto ai costi del non fare, non valga anche la pena di calcolare i costi del non decidere. Diamo a questo paese la possibilità di poter fare una scelta semplice, binaria: se andare verso un luogo aperto e avventurarsi nella vita vera e concreta, in cui la realtà è quella che si dirama anche nelle campagne assolate e tra uliveti solitari, o restare in in un luogo chiuso, dove la vita è sostitita dalle narrazioni, dagli annunci, da ciò che ci raccontiamo di voler essere ma che poi è drammaticamente smentito dai fatti.

E per farlo non è possibile immaginare un paese che continui a camminare su un binario unico.