Il confine del sospetto

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Il confine del sospetto è una linea sottile. Separa ciò che è lecito da quello che, a poco a poco, inizia a non esserlo. E’ quello che da un certo momento comincia a delinearsi, in tutta la sua labilità, davanti agli occhi degli industriali che hanno investito in provincia di Frosinone: hanno sviluppato calcoli, elaborato strategie d’azienda, scommesso soldi con l’obbiettivo di farne altri. Ma l’investimento inizia a dissolversi perché una raccomandata non arriva, un impiegato si ammala nel giorno meno adatto, un certificato non si trova.

Il luogo dove chiedere se si è di fronte ad una situazione sospetta, per gli industriali è la loro associazione: è lì che pagano per avere servizi, consulenza, assistenza. Soprattutto rappresentanza. Espongono il caso. E scoprono che non sono i soli ad avere lo stesso problema. Come è accaduto negli ultimi anni a Frosinone per decine di aziende alle prese con la nuova normativa ambientale. Parlando in associazione, ogni imprenditore ha scoperto che il suo episodio non era isolato. Tempi lunghi per avere quei certificati. Superiori a quelli registrati nelle altre province dove hanno la sede gli altri stabilimenti del gruppo. Unindustria – la principale associazione imprenditoriale sul territorio – capisce di essere di fronte ad un caso.

I ‘casi’ in Italia si seguono in base ad una prassi consolidata e non scritta. Innanzitutto si cerca con la ‘democrazia di relazione‘ cioè: chiediamo spiegazioni ai responsabili di quegli enti confidando in un loro intervento su una burocrazia lenta e inefficace. Il secondo passo è la ‘democrazia di comunicazione‘: visto che nulla è stato risolto allora rendiamo noto a tutti il problema, sperando che almeno la pressione mediatica induca a prendere provvedimenti. Il terzo step è la ‘democrazia di associazione‘ cioè: visto che ancora niente si muove, riuniamo in assemblea gli associati e alziamo la voce con un passo ufficiale e collettivo. Il quarto è la ‘democrazia del Diritto‘ cioè: se proprio non si ottiene niente interessiamo la magistratura.

Così è stato fatto anche per questo caso. Per arrivare ad una soluzione è stato necessario arrivare fino al quarto step. Solo quando è stata proposta una pioggia di ricorsi al Tar e le prime sentenze hanno dato ragione alle imprese, condannando la Provincia a pagare le spese, ci si è resi conti che qualcosa andava rivista.

A quel punto, assieme alla magistratura Amministrativa si è attivata anche quella inquirente.

I magistrati hanno individuato a loro volta la linea del sospetto. Perché le pratiche ambientali non camminavano in Provincia? No. Il paradosso è che il sospetto nei magistrati è nato quando le pratiche hanno iniziato a camminare. Ipotizzando che camminassero per ben altro motivo che l’efficienza sollecitata dagli industriali. La loro linea del sospetto passa per alcuni punti a) era stato rimosso un dirigente che i magistrati ritengono efficace e preparato b) al suo posto ne è stato messo un altro senza rispettare la procedura e creando un danno alle casse pubbliche c) non proprio tutte le ciambelle sono venute col buco e più di qualche autorizzazione rilasciata si prestava a poter essere criticata.

Quella che individuano i magistrati è una linea del sospetto che scorre a pochi passi dall’altra linea del sospetto individuata dagli industriali.

E in mezzo a quei due confini si trova schiacciata, come in una morsa sempre più stretta, una fetta non secondaria dell’economia di un’intera provincia. Le imprese per produrre hanno bisogno dei certificati ambientali, se non li hanno rischiano la chiusura; nei casi delle multinazionali ci sono le sedi centrali che non capiscono i motivi di tutto quel ritardo e minacciano di fare altrove i futuri investimenti e giammai nel plant in provincia di Frosinone. Dall’altro lato della morsa c’è una magistratura che ipotizza irregolarità nella soluzione adottata dalla Provincia e si fa venire il dubbio se le minacce di licenziamenti e delocalizzare gli investimenti servano solo per fare pressione. Dubbio legittimo ma il confine del sospetto è davvero molto labile.

Il passo da qui al corto circuito è breve. Il problema è ‘la soluzione’ adottata dalla Provincia e non avere ‘avere chiesto la soluzione’. Ma nel frattempo – di fronte ai tempi lunghi e linee del sospetto così troppo sottili, nell’area di Anagni una multinazionale sta mettendo in discussione il maxi investimento programmato; altre stanno prendendo atto delle sentenze con cui il Tar ha sospeso la gran parte delle richieste che erano state fatte dalla Provincia alle aziende per rilasciare le autorizzazioni ambientali: con tutto ciò che ne consegue in materia di affidabilità dell’interlocutore; di fronte al corto circuito si sono bloccate ingentissime risorse per investimenti: non si sta procedendo agli adeguamenti impiantistici e tecnologici, non si stanno effettuando gli ampliamenti.

Ciò che è più grave è quanto in queste ore ha denunciato da Unindustria: non ha ancora ricevuta nessuna risposta, nessuna attività è stata intrapresa per snellire i tempi e le procedure, per ottenere risposte certe ed in tempi ragionevoli per le esigenze di pianificazione delle aziende.

Il confine del sospetto è sempre più labile e sempre più lungo.