Piccola guida di chi dice No al referendum costituzionale

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Achille Migliorelli

 

di ACHILLE MIGLIORELLI
(già dirigente provinciale Partito Comunista Italiano
e già sindaco di San Giorgio a Liri)

 

Una vecchia narrazione dei “nuovi” riformatori Renzi, Boschi e Verdini recita, più o meno, così: “Avete avuto più di trent’anni di tempo e di riforme non ne avete fatte”.

In punto di verità, ciò non è esatto. In effetti, almeno dal 1985, di riforme istituzionali ne sono state fatte diverse. Non le richiamo per non tediare il lettore. E’, però, vero che, pur essendo state promosse riforme – anche importanti –, si è dovuto constatare che non basta fare le riforme, ma che bisogna anche farle bene.

La vicenda riformatrice autorizza a fare talune riflessioni.

Primo. Da quanto accaduto negli ultimi trent’anni in materia di riforme costituzionali, si deduce che tutti coloro che hanno coltivato il proposito di aggiornare la Costituzione del 1948 hanno ritenuto di farlo con la massima convergenza e partecipazione delle varie forze politiche. E che hanno desistito dal tentativo, allorchè si sono resi conto che l’unità auspicata – vuoi per ragioni egoistiche di parte, vuoi per l’esistenza di diversità di visioni – non poteva essere raggiunta. A giustificare i fallimenti ha concorso anche la impossibilità di avvalersi di ricatti e violazioni dei regolamenti, in quanto l’elezione dei deputati e senatori avveniva sulla base della loro elezione con metodo proporzionale. Tali abusi sono stati, invece, consentiti dal sistema ipermaggioritario di elezione della Camera dei Deputati previsto dal “Porcellum”. Questa legge, infatti, ha assicurato una dotazione di parlamentari non proporzionata all’entità del consenso ricevuto nelle elezioni del 2013. Si pensi che il P.D., da solo, ha una rappresentanza formata da circa 300 deputati, in luogo dei circa 200, che gli sarebbero spettati secondo una loro attribuzione proporzionale. Tra l’altro, in precedenza, la situazione politica non era così confusa da rendere tollerabile l’appoggio di diversi transfughi, saliti inopinatamente sul carro del (preteso) vincitore, in … dolce attesa della conclusione della legislatura per poter conseguire l’agognato vitalizio. In queste anomalie risiede, in buona parte, il segreto dell’approvazione della riforma renziana.

Secondo. Le Commissioni bicamerali nominate per assicurare l’aggiornamento della Costituzione sono fallite anche per un’altra – più seria e nefasta – ragione. Dall’inizio degli anni ’80, i sostenitori della riforma costituzionale hanno voluto perseguire l’obiettivo di portare “finalmente” a termine – con la scusa dell’aggiornamento della Costituzione del ’48 – una modificazione surrettizia della forma dello Stato, ponendo al centro dello stesso il Governo e non più il Parlamento. Questo disegno era determinato dalla volontà dei presunti “rottamatori” di esercitare il potere in modo incontrollato.

Quanto sta avvenendo oggi lo dimostra: con la riforma della Carta e con la nuova legge elettorale (l’Italicum) gli strateghi della “modernità” mirano, in buona sostanza, a sostituire con una Repubblica (quasi) presidenziale la Repubblica parlamentare. Tali scelte sono state tradotte in un progetto di revisione costituzionale volto a dare vita ad un nuovo assetto della forma di governo, capace di dettare nuove regole della lotta politica e della democrazia. Alla democrazia organizzata e partecipata, con alla base la mediazione dei partiti, si vuole sostituire una democrazia individualistica, fondata sul rapporto immediato tra cittadini e leader. Può, infatti, dirsi che la legge di riforma – che siamo chiamati a confermare o meno nel referendum d’autunno – segna la “chiusura” di questo disegno.

Terzo. A ben vedere esistono, però, messaggi di tutt’altro senso. Nel 2007 la Commissione affari costituzionali della Camera approvò il Ddl AC-553 A, la cosiddetta Bozza Violante, che riscosse larghi consensi tra i costituzionalisti per la sua impostazione di “revisione rispettosa e costruttiva” della Costituzione del ‘48. In quella legislatura si è cercato, altresì, di modificare la legge elettorale, con la maggioranza di centrosinistra aperta ad un dialogo proficuo. Ma la sfiducia data al governo Prodi ha provocato anche la fine di quel tentativo di riforma.

Nel 2013, la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, istituita da Napolitano e Letta, presentò una relazione (anch’essa a firma dell’On.le Violante), che riscosse un consenso molto vasto. Ma l’avvento di Renzi, dopo l’inciucio del Nazareno, ne causò l’abbandono. E venne sostituita da un nuovo procedimento, “curato” dal Governo direttamente e portato a termine con ricatti, canguri e supercanguri, fiducie e avvalendosi del sostegno numerico di diversi parlamentari “pendolari”.

Quale lezione si desume da queste scelte? Che la riforma in discussione rispecchia proprio questa linea. In effetti, essa ha reso impossibile il varo di un aggiornamento condiviso della Costituzione: la legge sottoposta a referendum confermativo è diretta a consentire una gestione individualistica, accentratrice e personalizzata dello Stato.

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