A chi serve davvero il voto alle provinciali?

Arturo Gnesi
di ARTURO GNESI
Sindaco di Pastena

 

Caro direttore,
le province resistono alle proposte di riforma e di smantellamento che con alterne fortune hanno fatto capolino sui diversi tavoli istituzionali senza tuttavia avere l’avvallo definitivo da parte delle forze politiche.

A gennaio si vota per rinnovare il consiglio provinciale, voto riservato agli eletti delle assise comunali e con un voto ponderato, ovvero che ha un peso specifico già prestabilito e rapportato al numero degli abitanti dei diversi comuni.

Un voto a democrazia limitata e a sovranità controllata visto che le competenze e i compiti delle amministrazioni provinciali stanno subendo un processo di incerta trasformazione e di lento trasferimento alla Regione o alla governance nazionale.

Allora che valore assume una presenza politica all’interno di un organismo imperfetto, in fase di estinzione e per giunta in nome di una collettività tenuta lontana dalle urne?

Che peso assumono gli eletti in un contesto politico che pensa più alle percentuale dei voti di ogni singolo Partito che al disagio sociale, alla depressione economica e alle incertezze legate allo sviluppo della nostra terra ?

La nostra provincia è un microcosmo che racchiude tutte le contraddizioni della società contemporanea e allo stesso tempo nutre e custodisce quelle risorse intellettive ed umane capaci di dare una svolta al futuro del nostro paese.

Tanto più il tessuto sociale è disomogeneo tanto più sembrano insuperabili le conflittualità sociali legate all’accoglienza e all’immigrazione, quanto più la società è stata dominata dalla spartizione del potere e dalla lottizzazione politica e tanto più è debole lo spirito imprenditoriale, quanto più è solido il sistema clientelare tanto più forte è l’infiltrazione delle organizzazioni mafiose.

Sottosviluppo e disoccupazione che sono il risultato di una struttura sociale lenta ad evolversi e purtroppo frenata da un sistema di interscambio di favori tra la classe politica e l’apparato economico-finanziario, al quale hanno fatto da supporto la variegata costellazione dell’imprenditoria e del sindacato.

Ne è venuto fuori un sistema culturale debole, che anziché dettare le regole ha subito i diktat da Roma ed è risultato ipnotizzato dal fascino del potere romano che anziché essere un propulsore per il progresso dei nostri comuni è stato un palliativo ai bisogni sociali.

C’è da rimettere a posto un sacco di cose ma la “provincia” avrà i mezzi e gli strumenti per farlo oppure gli eletti saranno solo il fiore all’occhiello dei Partiti per dimostrare che esistono e che hanno aperto una sorta di “cantiere scuola” per la formazione della futura classe dirigente ?

Mi angoscia il solo pensiero di essere “la spina nel fianco” dei Partiti perché ho sempre pensato che la politica deve essere la “spina dorsale” della società .
Da questa elementare verità ritengo che i Ciociari , figli dei briganti, possano essere interpreti di una cultura capace di cambiare le sorti di un territorio altrimenti condannato ad un declino mortale.

Figli dei briganti o figli adottivi di Roma? E’ questo il problema.

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