Il tema della separazione delle carriere divisivo anche dentro la Nazareno e i rischi di una crociata-boomerang dei dem
Tutti a discettare su un fatto, ultimamente. Su quello cioè per cui in tema di riforma della Giustizia Giorgia Meloni si è trascinata sul groppone il primo (ed unico per lei) referendum in positivo della sua storia governativa. (Leggi qui: Chissà se Giorgia è scaramantica).
Sarà infatti un referendum confermativo e per la prima volta, invece di strusciarsi all’astensionismo e poggiare sulla sua maggioranza (molto) relativa, la premier dovrà andare lei a spasmodica caccia di voti. Una cosa molto più difficile che puntare il dito contro “i nemici der popolo sovrano” con tre quarti dei media ridotti (piaccia o meno) a mezzi o sospetti house organ.
E sull’altro versante?

Pochi, o comunque non troppi, discettano sul fatto opposto e adiacente al primo. Quello cioè per cui il Partito Democratico non sa ancora se trasformare questa battaglia referendaria in una prova del nove contro il Governo oppure se passare la mano in virtù di posizioni per nulla omogenee al suo interno.
E’ la solita solfa in sala “confusional” insomma, a cui si aggiunge un dato: a larghissima parte del riformismo dem la separazione delle carriere piace e come, il che porterebbe Elly Schlein a combattere la solita battaglia alla Cervantes. Con lei Don Chisciottessa ad invocare il no a primavera con il doppio scopo di far fuori la Meloni e di spazzar via dal Nazareno quelli che non amano il suo massimalismo.
Ovviamente è uno scenario fantascientifico ma non troppo. Roba con sceneggiatura solida ma storyboard improbabile, un po’ come con “Interstellar” di Nolan.
Lo scenario di partenza

Analizziamo lo scenario e partiamo dai sondaggi: i dem non riescono a vampirizzare neanche un punto percentile a Fratelli d’Italia, Partito della premier, malgrado scivoloni e cappellate maiuscole dei componenti di quest’ultimo e della stessa leader. Il che presupporrebbe quanto meno una linea omogenea.
Ecco, ogni volta che le faccende del Pd principiano con questa “key-word”, “omogeneità di vedute”, iniziano i guai seri. Ma seri davvero eh?
Partiamo ad esempio da Romano Prodi: ultimamente l’ex Padre Nobile della sinistra piaciona è stato decisamente prodigo di critiche con la linea della segretaria in carica.
Fuoco incrociato Schlein-Prodi

Tanto da innescare un caso, montato da Il Foglio, poi sgonfiatosi dietro smentita diretta dei due protagonisti. Prodi avrebbe chiesto una casella per le prossime Europee e Schlein avrebbe detto no adducendo come “movente” il fatto che la circoscrizione emiliana è feudo intoccabile di Stefano Bonaccini.
Smentita secca di entrambi (ovvia) e solita soffiata inside di una fonte autorevole per la quale non era tanto il merito della cosa a fare fede, quando piuttosto il mezzo livorino che Schlein ha maturato nei confronti del Professore dopo le ultime critiche.
Insomma, il quadro è questo, ed il referendum sulla Giustizia rischia di diventare per il Pd l’ennesimo campo di battaglia inutile e frammentato. Roba da puzzle a cui manca sempre il pezzo finale.
A parti invertite…

Cioè un terreno dove potenzialmente è più facile fare figure di roba calda e marrò che segnare punti. Anche perché, a voler massimizzare lo scontro politico (del tutto inutile per il vissuto quotidiano degli italiani, a cui della separazione delle carriere frega come criteri di deplazione della Ferragni) bisognerebbe tener conto di un fattore duplice.
Quale? Quello per cui se è vero che se Meloni perdesse il referendum dovrebbe dimettersi (testo e musica di uno che se ne intende, Matteo Renzi) allora a parti invertite dovrebbe essere vero il contrario.
Cioè che se Meloni vincesse il referendum e portasse a casa la conferma pop a dimettersi dovrebbe essere Schlein, specie se trasformasse quella battaglia in un sub-scontro con i “suoi” riformisti.
I dem pro separazione delle carriere

Perché il dato tecnico è proprio questo: nel Pd non sono affatto pochi quelli che nella separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti non ci vedono niente di eretico. Qualche nome? Vincenzo De Luca, Stefano Ceccanti, Claudio Petruccioli.
Poi Enrico Morando e perfino Cesare Salvi e Goffredo Bettini, che non è certo un “hostile” della segretaria. Senza contare poi che seniores di grana finissima come Massimo D’Alema avevano pasturato nello stagno a tema fin dai tempi della Bicamerale. Roba paleolitica, per carità, ma che fa Storia.
Insomma, è un quadro composito e, come al solito, difficile perché frammentario. Qualcuno la chiama dialettica, ma tante, troppe volte si traduce più prosaicamente in “casino”. Il prossimo casino nelle stanze affollate del Nazareno.



