La posizione terribile di un Paese costretto a scegliere tra le scommesse geopolitiche e le soluzioni di economia interna: con un solo budget
C’è poco da illudersi, quella ottenuta cnei giorni scorsi con encomiabile lavoro di sinergie da valore assoluto è una tregua. Non è la fine dei guai e non rappresenterà mai una pietra miliare del sollievo. Certo, resta tutto il risultato tondo e straordinario, ancor più in punto di lirica ché è Natale, di quei posti di lavoro salvati. Di quelle famiglie che le lacrime di disperazione le hanno surrogate con quelle di gioia. Le stesse lacrime che sono scese sulle gote di tutti quegli operai dell’indotto Stellantis di Cassino Plant quando sono corsi ad abbracciare i loro sindacalisti tra cui un Francesco Giangrande più schivo ed efficiente che mai. E con lui il “suo” segretario sul campo Gennaro D’Avino. (Leggi qui: Stellantis, accordo al Mimit: licenziamenti ritirati e contratti prorogati).
Pericolo scampato dunque ma “guerra” ancora in corso, anzi, senza apici in virgoletta, guerra a tutti gli effetti, a considerare un certo ragionamento squadernato da uno smagliante Alessandro Agostinelli su Il Riformista. Ma facciamo solo un passo indietro e diamo una ulteriore chiave di lettura, sarà utile.
“Miracolo” di Giangrande ed analisi di Celletti
Quella che qualche giorno fa aveva fornito il presidente di Unindustria Cassino nel corso dell’ultima puntata di “A Porte Aperte” su Teleuniverso. A chi in studio si poneva il dubbio se su Stellantis fosse o meno cambiata la musica Vittorio Celletti aveva schiuso una prospettiva aggiuntiva. Quella per cui senza sinergie effettive, strategie collegiali e fuori ambito di singola bottega non si arriverà da alcuna parte.
Questo perché il mondo dei lavoratori e quello dell’industria sono complementari ed il primo esiste nella misura in cui esiste ed opera l’altro. Perciò il tutto è riconducibile ad una verità essenziale ma scomoda: se gira la produzione e se qualcuno apparecchia e tiene a regime le condizioni per farla girare arrivano stipendi, altrimenti il Green Deal coglierà tutti impreparati.
Ed un certo tipo di lacrime ritornerà su molte altre gote, sempre in zona Natale ma 2025.
Un problema di fondi e sinergie vere
Il problema però, su scala nazionale, diventa più serio, perché quando si parla di produzione e lavoro connesso alla sua mission il cardine è quello della disponibilità economica, altrimenti è tutta fuffa. E quanto una crisi severa ha tutti i crismi per diventare sistemica interventi ed atteggiamenti dei governi centrali sono fattori chiave. Ecco, è qui che Agostinelli ha allargato il campo in visuale ampia. E dai margini di quell’immagine grandangolare sono apparse cose su cui riflettere.
Cose foreste, di geopolitica in purezza che sembrano cozzare con il “purismo” del tema Stellatins-lavoro. E invece non è così, non se “l’ammiraglio Rob Bauer, presidente del comitato militare della NATO”, la mette come l’ha messa. “Qualche giorno fa, invitato dal think tank EPC (European Policy Centre), ha detto che salgono i venti di guerra in Europa”.
Che significa, e che legame c’è tra un alto ufficiale della Us Navy che sta nella stanza dei bottoni dell’Alleanza atlantica e le lacrime di sollievo di quelli che cercavano il viso di Giangrande a fine summit presso il Mimit di Adolfo Urso?
La profezia dell’ammiraglio
L’ammiraglio Bauer aveva detto che c’è il bisogno assoluto ed inderogabile di “attrezzarci per investire più soldi in armi e sicurezza; che dobbiamo cercare, attraverso la nostra industria, di svincolarci dal guinzaglio che abbiamo con Russia e, soprattutto, Cina”. E che bisognerà farlo “riguardo a materie prime e altri beni necessari all’industria di trasformazione che abbiamo (non si sa ancora per quanto – nda) in Europa”.
Serve un recap altrimenti il legame tra i due temi resta flebile. Da un lato c’è il bisogno assoluto di un Paese di mettersi in pari con una specifica branca della produzione industriale, quella bellica e delle materie prime di foraggio alla stessa. Dall’altro abbiamo quello stesso Paese che nella sua pancia ha bisogno di un piano di investimenti monstre. Per accompagnare la sua produzione industriale verso il Green e per ricollocare quelli che il Green sfratterà dal vecchio format.
Non è uno scenario bellicista come quello, in ovvia iperbole, con cui a Mobile, in Alabama, gli Usa in guerra contro il nazifascismo riuscirono a compensare i danni postumi della Depressione del ‘29, ma qualche spunto c’è. E va evidenziato.
Violenza, insicurezza e Pil
Il dato è che il sistema complesso dell’Occidente non ha mai preso in considerazione un fatto: che noi viviamo in uno scacchiere geopolitico dove violenza ed insicurezza sono i veri catalizzatori del Pil. Ed anche al netto, evidenziato molto bene da Agostinelli, di un tentativo di Washington di fare upgrade sull’interventismo americano in guerra con l’Ue che agisce “per conto terzi”, ci sono dati importanti. Veniamo adesso a Stellantis ed alla “guerra interna”.
“Di fronte alle incertezze del governo italiano su quanto aumentare la spesa militare, di sicuro a Palazzo Chigi c’è adesso la preoccupazione di un’altra guerra: quella dell’automotive. Stellantis, cioè la ex-FIAT ormai non più FIAT e non più italiana, ha drenato un quantitativo di denari pubblici impressionante, per arrivare al presente senza fiato e con la prospettiva di ulteriori casse integrazioni”.
Qui, in questo punto esatto, è scattata la “ricetta Urso”.
La ricetta Urso: salatissima
Perché il ministro “ha dichiarato che il governo Meloni dovrà investire 750 milioni di euro nell’automotive”. C’è il terrore evidente che un intero sistema crashi, non solo che una crisi metta sul lastrico migliaia di famiglie.
Tuttavia 750 milioni di euro sono una cifra che fa scacchiere in una Finanziaria ed il governo Meloni quei soldi non ce li ha. Il rischio è che tra guerra da foraggiare fuori e guerra da sostenere inside alla fine l’Italia possa scoppiare e diventare una polveriera sociale, cioè la negazione esatta del format patinato che Meloni propone e propina almeno due volte al giorno.
Il tutto poi con Transizione 5.0 che doveva traghettare investimenti per 6 miliardi, ma che per ora ne ha messi a terra solo 600 e rotti. Questo anche al netto dei recenti aggiustamenti spuntati al Mimit grazie ad un asse tra Urso ed un Raffaele Fitto in posizione ibrida tra ciò che era e ciò che è, perciò favorevole. Il problema è sempre quello: cioè la versione “fredda ed inflessibile” di una Ue che sulle nuove regole vuole un timing veloce.
Con norme “che impongono divieti per la costruzione di auto a carburante in tempi troppo rapidi”. Oppure “il legaccio della produzione europea alle batterie elettriche cinesi; il doppio regime di retribuzioni e diritti sindacali all’interno della stessa Europa”.
Affrontare solo il presente
Il guaio grosso è che tutto questo era chiaro da anni e nessuno ci ha messo rimedio o ha abbozzato una strategia. Perciò ci siamo ritrovati un’Europa ampia ma non coesa in politiche comuni. Una Germania che ha fatto il purosangue in mezzo ai brocchi per decenni (grazie a Schroeder, non a Merkel) ed una opzione tremenda: quella per cui sembra proprio che “dobbiamo morire economicamente per non perire militarmente contro la Russia che preme”.
Ma il problema è un altro: quello atavico di un’Italia in cui i governi sono abituati ad affrontare il presente senza operare per il futuro, in linea temporale di continuità, quindi con gli esecutivi che cambiamo ma con i problemi che si accumulano. E che generano sedimenti sempre maggiori di paura sociale.
Perciò quando il futuro arriva e diventa presente nessuno ha la ricetta per affrontarlo perché nessuno aveva studiato una formula prima. Ed oggi siamo costretti a barcamenarci tra lacrime di paura e lacrime di sollievo, quando invece avremmo dovuto evitare proprio che sgorgassero.