Foglietta lo sapeva già: la Meloni democristiana salverà quella sovranista

La nuova Ue lo ha fatto capire: sì a Roma ma no secco a Via della Scrofa, perciò la premier ha usato una tattica "collaudata" dall'ex europarlamentare ed efficace ancora oggi

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Fondamentalmente Giorgia Meloni ha fatto benissimo ad astenersi sul nome di Ursula von de Leyen dopo quello che ha ritenuto essere stato un “smacco” alla volontà popolare. Smacco che in realtà con la volontà popolare non c’entra nulla e che mette piuttosto in mezza mora i sovranisti di Ecr. Ha fatto bene, la premier, perché in politica le scelte vanno ponderate. Ed i loro incastri causa-effetto analizzati con più criterio di quanto non se ne usi per fare tana ad occasionali talloni achillei.

Ragioniamo sul fatto che “L’talia cambia l’Europa” non era forse lo slogan giusto, semmai il contrario. Un voto della premier italiana contro la Presidente uscente e in odor di riconferma avrebbe terremotato ogni assetto. In Ue ci sono 24 eurodeputati di Fratelli d’Italia e quello di Meloni sarebbe stato un segnale inequivocabile e senza riflessione di debolezza, perciò a quel punto e senza possibilità di aggiustamento addio Commissari. Ed addio, tanto per citare un caso-scuola, sogni di Nicola Procaccini di centrare il ruolo chiave all’Economia.

I due scenari, nessuno impeccabile

Ursula von der Leyen

Se invece Meloni avesse votato in prima istanza per Von Der Leyen si sarebbe tatuata il doppio mood tra democristiano e sovranista, con entrambi saggiamente dosati a seconda delle circostanze. Ed avrebbe fatto il male di Von der Leyen.

Perché? Perché le avrebbe impresso sulla pelle ed a fuoco vivo il marchio della destra sovranista che si struscia dove non dovrebbe. Perciò tra due settimane e poco più, quando a Strasburgo la legislatura Ue avrà inizio con il voto, sarebbero stati scossoni forti.

Questo perché Ppe, S&D e Renew hanno 399 voti ma sono sotto scacco a scrutinio segreto dei franchi tiratori, e fomentarne un’altra manciata dell’ala sinistra con un endorsement lesto ed in purezza ad un Ursula II da parte della presidente di Ecr sarebbe stato come svegliare i Gremlins. Come a dire che tra movente e motivo sarebbero in molti a volersi “togliere uno sfizio autorizzato”.

Nicola Procaccini

Su questa tesi concorda ex ante anche uno decisamente skillato sul tema come il vice Ceo del think tank con sede a Bruxelles “European Policy Centre”, Janis Emmanoulidis.

Insomma, la premier avrebbe dovuto votare a favore, la presidente di Ecr avrebbe dovuto votare contro ed alla fine Giorgia Meloni si è astenuta, ed attende sviluppi. Cioè controproposte, limature ed aggiustamenti che decanteranno da qui al 18 luglio dopo il suo no-spia a Kaja Kallas e sporattutto ad Antonio Costa. Quindi con un paletto fermissimo, che è quello della assoluta volontà della leader di Fdi di non chiudersi a riccio. Ma neanche di concedere spazi di soddisfazione immediata e di pronta beva alla sinistra europea.

An, la Ciociaria che fu ed il teorema Foglietta

Il senatore Bruno Magliocchetti (Archivio Alessioporcu)

Il che a ben vedere rimanda ad un modello preciso, cavalleresco e traccheggione al contempo. A quello ed alla “vecchia scuola” di Fdi, quella che più della altre affonda radici e rotte nella sontuosa stagione di Alleanza Nazionale in Ciociaria.

Quella dei Romano Misserville agli esordi, dei Bruno Magliochetti, degli Oreste Tofani, dei Francesco Storace. E degli Alessandro Foglietta. Proprio l’ex sindaco di Supino, ex europarlamentare di An ed ex portavoce di Storace aveva portato allo stato dell’arte ed a livello provinciale il teorema politico per cui se ti apparenti con la sinistra subito e per mero funzionalismo perdi punti. Inequivocabilmente.

A dicembre del 2022 e con il Governo Meloni già saldamente insediato Foglietta disse la sua sul voto per le Provinciali, e spiazzò tutti. Lo fece dichiarando apertamente di sostenere il sindaco di Frosinone Riccardo Mastrangeli in rottura con la linea della Federazione che invece puntava su quello di Arce Luigi Germani. Foglietta la mise bene, bene e dura, in contrasto aperto con il coordinatore Massimo Ruspandini che si avviava alla Presidenza provinciale con il congresso dell’anno dopo.

Di valori fondanti e “correttezza”

Alessandro Foglietta

E spiegò: “Mai come in questo momento è necessario recuperare il valore fondante dell’unità del centrodestra, ora che siamo stati finalmente chiamati a un ruolo di governo quale forza trainante della coalizione. (…) Adesso che siamo maggioranza della maggioranza, abbiamo il dovere di dimostrare con i fatti che la ‘pari dignità e la correttezza reciproca’ non erano i concetti di comodo del ‘parente povero’, ma convinzioni vere, che dobbiamo applicare”.

Poi la chiosa fuor di ragionamento di coalizione, che portata sul voto Ue odierno vale, ma su scala diversa. “È poi incomprensibile, ora che finalmente si è chiusa la quadratura su un Governo nazionale ben caratterizzato e finalmente coeso, non operare scelte non chiare. Nette e di campo, ma del peggior tipo consociativo accanto a un Partito Democratico ormai affidato al Wwf. Scelte che sono del tutto inutili alla crescita e al consolidamento politico del centrodestra. Scelte che non sono certamente a favore dei cittadini”.

Insomma, Foglietta spiegò in tempi non sospetti che trattare non è peccato ma che per farlo bisogna essere eleganti da posizioni di forza, eleganti e sottili. E dar conto ad una rotta di coerenza che però non metta mai a fattore interazioni immediate e dirette con la sinistra. Sennò si perde la faccia.

Il post “cavalleresco” di Ruspandini

Massimo Ruspandini con Alessandro Foglietta

Proprio in queste ore Massimo Ruspandini ha postato sui social una sua foto proprio con Foglietta. E con uno script a metà tra appello e cartavetra.

“Da Sandro Foglietta, un pezzo di storia della destra provinciale e non solo, un pezzo di storia della nostra vita e della mia. Tante lotte, tante discussioni, tante frizioni… Sempre senza nascondersi, sempre da uomini. Da lui abbiamo imparato tanto, troppo forse… Oltre i tradimenti che fanno parte della vita ma non fanno parte del dna di gente come noi. Aldilà delle polemiche, rimane il rispetto e il bene di chi ha vissuto fianco a fianco per anni e anni. Anche oggi, resti il leader di ieri.

Insomma, al di là di piani differenti, circostanze e personaggi c’è un cemento sottile che unisce il Fdi di oggi, quello che ha “vinto senza vincere” alle Europee. Tenere la rotta non è più un format di ortodossia ma non è ancora un format di funzionalismo brado, e la zona grigia in cui quei due mood si incontrano è il punto esatto in cui Fdi si sostanzia nella sua versione migliore. O quanto meno più proficua tra identitarismo e speculazione.

Tra identità e strategia

Giorgia Meloni

I prossimi giorni potrebbero consentire a Meloni di tirar via dall’equazione gli alleati Ecr più “mastini”, alcuni dei quali migrerebbero con Viktor Orban in un nuovo soggetto-Visegrad allargato. Poi agganciare quelli popolari più disposti a fare squadra. Infine far apparire i socialdemocratici come quelli che si ritrovano una sedia in più al tavolo e ci si rovinano la digestione.

Il tutto con una chiave che è stata chiara fin dall’inizio: quella per cui oggi all’Ue serve il prestigio indiscusso di Roma e non lo shining bullo di Via della Scrofa. Perché se a Bruxelles oggi parli di Italia tutte le orecchie si allertano, ma se parli di Ecr ci sono solo imbarazzo degli alleati e musi lunghi degli avversari.

Il che spiega meglio di centomila parole cosa accadrà: che la Meloni democristiana salverà la Meloni sovranista. E che collaborare con la prima infilerà nella porta di Bruxelles anche la seconda.

Con un Matteo Salvini un po’ più incazzato e con Visegrad che, lentamente, scompare dall’orizzonte e se ne va a fare un nido tutto per sé. Perché a dispetto del miglior Luigi Pintor e del suo Manifesto sì, alla fine sempre quello succede da noi. Che moriamo tutti democristiani.