
Il Castello dei Conti diventa simbolo di scontro politico tra i candidati sindaco di Ceccano. Le tensioni sorgono attorno alla storia del castello, chiuso per inchieste. Cultores Artium denuncia l'uso strumentale della cultura da parte dei politici. Il Castello osserva. E attende il suo prossimo custode.
Nell’ombra delle torri merlate, si gioca una delle battaglie più simboliche di questa campagna elettorale che eleggerà il nuovo sindaco di Ceccano. Non è solo pietra. È identità, racconto, potere. È il Castello dei Conti.
Nelle elezioni ceccanesi 2025, ogni parola pesa come una pietra. E se la pietra in questione è quella del Castello dei Conti, allora il dibattito si fa muraglia. Tutto è cominciato con un video pubblicato da Ugo Di Pofi, in cui il candidato di centrodestra ha rilanciato la narrazione della “Contea” come rinascita culturale. A stretto giro, è arrivata la replica di Andrea Querqui, candidato del centrosinistra, che ha sganciato l’affondo: «Bisogna essere onesti intellettualmente: il Castello dei Conti è stato acquistato dal centrosinistra». E subito dopo c’è la reazione indignata dell’associazione Cultores Artium, per anni custode della fortezza.

Una frase, quella di Andrea Querqui, che ha il suono di una sentenza. Come se a parlare fosse l’atto notarile in persona. Un ritorno al 1997, quando il Comune decise di acquisire il maniero in asta pubblica per 384 milioni di lire – circa 198mila euro. Fu una mossa che liberò il bene dalle ipoteche, trasformando le macerie di un ex carcere in simbolo urbano. Seguì il restauro: delibera dopo delibera, miliardo dopo miliardo, la cittadella feudale tornò a vivere. Almeno nei verbali. Perché oggi, ventisette anni dopo, il Castello è chiuso, sotto sequestro, al centro di un’inchiesta sull’uso dei fondi Pnrr che ha travolto l’ex sindaco Roberto Caligiore.
E allora la domanda serpeggia tra i vicoli: chi ha amato davvero il Castello?
La voce degli “artigiani della cultura”
A rispondere, indignati, sono stati anche loro: l’associazione Cultores Artium, i custodi della fortezza per ben undici anni. Anche il loro intervento è arrivato dopo il video di Di Pofi. Hanno gestito eventi, accolto turisti, tradotto guide in sei lingue, portato Ceccano nei programmi nazionali. E oggi sbottano: «Siamo dispiaciuti per le esternazioni di alcuni politici della vecchia amministrazione, poco avvezzi a frequentare il Castello prima del 2020». Insomma, chi ora lo elegge a totem elettorale, un tempo lo snobbava.

«Non abbiamo mai usato il Castello per costruire carriere personali. Il nostro obiettivo era sviluppare cultura, non accumulare selfie», scrivono con l’orgoglio ferito di chi ha visto la cultura trattata come merce da campagna. E rincarano la dose: «È proprio per non aver voluto assecondare certe logiche che siamo stati messi all’angolo». Tradotto: chi oggi predica trasparenza, ieri chiudeva porte. In silenzio.
Poi arriva la stoccata in un commento social più duro da parte del presidente di Cultores Andrea Selvini: «Da chi fa turismo basandosi su una storia “inventata”, a base di simboli fasulli, Santi mai passati per Ceccano e tante altre favolette, c’era da aspettarselo che potesse “reinventare” anche la storia recente del Castello». Un’accusa nemmeno troppo velata a chi, negli ultimi anni, ha messo da parte la verità storica in favore di narrazioni pittoresche e forzate, come quelle sui Templari, più funzionali alla spettacolarizzazione che alla memoria.
Il marchio della Contea

Tutto è cominciato da lui. Dal candidato di centrodestra Ugo Di Pofi. Quello che parla di castelli come altri parlano di calcio. In un video social ha dato il via alla contesa, rilanciando uno dei cavalli di battaglia della coalizione: la Contea. Quella che è diventata marchio di fabbrica dei meloniani ceccanesi. Ha rivendicato il lavoro fatto, sottolineato il contributo di Stefano Gizzi – ex assessore alla Cultura, defenestrato per simpatie filoputiniane – e innalzato le manifestazioni Notti della Contea a simbolo di rinascita.
«Il Castello era abbandonato da cinquant’anni, dimenticato dalla sinistra. Solo negli ultimi dieci anni ha ritrovato luce». Poi Ugo Di Pofi assesta una stoccata a Querqui: «Mi fa piacere che insegua i temi che lancio io. L’acquisto fu positivo, sì, ma se un bene non è fruibile, non serve a niente».
E qui tira fuori la cartucciera della polemica: «La sinistra ha lasciato solo cattedrali nel deserto e filosofeggia sui non-luoghi». Altro che “la bellezza salverà il mondo”. A Ceccano, la bellezza divide.
La verità secondo Gizzi

Nella puntata “clamorosa” annunciata ieri sulla sua pagina Facebook, Stefano Gizzi – ex assessore e storico volto della narrazione sulla Contea – prova a rimettere ordine tra le versioni. E risponde a Querqui: non fu il centrosinistra a comprare il Castello, ma l’intero Consiglio comunale, compreso lui, che votò a favore. Una precisazione che suona più come una rivendicazione personale che una smentita vera, visto che la maggioranza politica dell’epoca era proprio di centrosinistra.
Nel video, Gizzi prende di mira anche Alessandro Ciotoli, autore di un post in cui ricordava che il Castello funzionava già prima del 2015. Gizzi lo smentisce: «La parte agibile era solo il 20%», dice, «se guardate le fotografie del cappellano Alessandro Ciotoli, sono tutte nella stessa area». Secondo lui, all’epoca non c’era una vera sala conferenze, e mostra – in video – come l’ha trovata lui, all’inizio del suo mandato.
Peccato che tra i due litiganti, né centrodestra né centrosinistra, nessuno mostri più le sale, né lo stato in cui versano dopo i lavori. Soprattutto, nessuno mostra l’avanzamento dei lavori di restauro. In questi giorni la campagna elettorale di Ceccano si concentra sul Castello, ma ai più sfugge un dettaglio cruciale: i ceccanesi non avranno accesso al bene per molto tempo. Il sequestro dei lavori e l’indagine con cui verificare l’ipotesi di corruzione legata al restauro rendono difficile immaginare una riapertura rapida. Secondo una tabella ancora affissa in via Mura Castellane, i lavori avrebbero dovuto concludersi nel novembre 2023, ma quella scadenza è stata travolta dalla burocrazia e dalle inchieste.
Chi racconterà il Castello ai bambini del 2030?

In tutto questo, il Castello sta lì. Silenzioso, impassibile. Ma non neutrale. È specchio di una città che lotta per capire chi è e chi vuole diventare. Una città che ha bisogno di memoria ma anche di visione. Di cultura, ma senza clientele. Di bellezza, ma vera.
Oggi, oltre alle parole, il Castello è anche vittima di un’inchiesta. È sotto sequestro, fermo, immobile. Non luogo per eventi, ma capitolo giudiziario in attesa di risposte.
In “Il nome della rosa”, il vecchio Jorge diceva: «Il desiderio di sapere era troppo forte. È così che si perde Dio». Qui, forse, il desiderio di potere è troppo forte. È così che si perde il Castello. Chi lo riaprirà? Chi lo racconterà ai bambini del 2030 come luogo di storia, non come campo di battaglia tra candidati? La campagna elettorale è lunga. Il Castello osserva. E attende il suo prossimo custode.
Quello che non lo userà. Ma lo servirà.