La visita pastorale di monsignor Santo Marcianò ad Alatri. Ha unito tradizione e innovazione, enfatizzando la Chiesa come comunità in movimento. Attenta ai poveri e impegnata nella giustizia sociale, con l'obiettivo di rendere Alatri una "città eucaristica". La pioggia improvvisa. Le lacrime del sindaco. L'anello in dono
Non era un vero insediamento, perché dal 1986 Alatri non è più diocesi autonoma. Eppure la prima visita pastorale di monsignor Santo Marcianò ad Alatri, ieri pomeriggio, ha avuto il sapore dell’evento. Non solo perché ha voluto onorare la Cattedra ma perché ha scelto di farlo con tutti quei gesti e simboli capaci di parlare alla gente, alla storia e persino al futuro.
Marcianò, il vescovo ad gentes

Appena varcata Porta San Pietro, il nuovo arcivescovo non si è diretto subito al palco rivestito di panno rosso che gli avevano preparato per l’accoglienza civile. Ha lasciato il percorso e si è mosso tra la folla: carezze ai bambini, strette di mano e persino quel cuore fatto con pollice e indice che i ragazzi usano sui social. Un segno semplice, ma eloquente: la sua sarà una guida orientata alla Missio ad gentes, la Chiesa che va incontro, non quella che aspetta dietro un altare o un confessionale.
Che Santo Marcianò sia un pastore che parla ai cuori delle persone se n’è accorto subito il sindaco Maurizio Cianfrocca. Non è riuscito a trattenere le lacrime durante la lettura del discorso: gli ha consegnato le chiavi della città «non per aprire porte ma per aprire cuori».

E poi, la scena che tutti aspettavano: Marcianò a dorso di una mula bianca. Un rito che risale all’arrivo delle reliquie di San Sisto e che i suoi predecessori hanno rispettato tutti, tranne Ambrogio Spreafico. Con un sorriso ironico, Marcianò ha commentato: «A differenza di allora, con San Sisto portato in una cassetta come reliquia, io sono vivo: e il mio compito sarà custodire la vita, dalla nascita fino alla morte».
Il corteo, accompagnato dalla banda musicale Città di Alatri, ha risalito le vie fino all’Acropoli. Dove, però, il cielo ha deciso di scrivere un’altra pagina: un temporale improvviso ha costretto a spostare la celebrazione dalla piazza gremita all’interno della concattedrale.
La città Eucaristica

C’è sempre un rischio quando un nuovo vescovo si presenta a una comunità: restare intrappolato nei riti, nella liturgia che rassicura ma non scuote. Marcianò, invece, ha scelto di camminare — anzi, cavalcare — sul crinale tra tradizione e provocazione evangelica. La mula bianca non è stata folclore, ma un gesto teologico. Non superstizione, non scenografia ma un richiamo alle radici: la fede che si incarna nella storia concreta di un popolo, come accadde per le reliquie di San Sisto.
Il vescovo ha osato di più: ha trasformato il nome stesso di Alatri, “Alata Turris”, in metafora spirituale. Una città che porta nel proprio nome le ali e quindi una vocazione: guardare “in alto”, verso il trascendente. Qui si coglie il primo passaggio chiave: la Chiesa non come istituzione seduta, ma come comunità che “vola”, che respira il cielo.
Il discorso si innesta poi sulla categoria della “pietà popolare” cara a Paolo VI. Non come devozionismo superficiale ma come “pedagogia di evangelizzazione”: sete di Dio, sacrificio, pazienza, croce quotidiana. Marcianò vi legge un programma pastorale per l’intera comunità, in sintonia con le parole di San Paolo usate durante le Letture: giustizia, fede, carità, mitezza. Virtù che non sono solo compiti del vescovo ma missione condivisa di sacerdoti, consacrati e laici.
Marcianò e la parabola di Lazzaro

Poi, la parte più tagliente: la parabola di Lazzaro e del ricco. Marcianò la rende attualissima. Lazzaro ha un nome, il ricco no. Lazzaro incarna i poveri che hanno dignità perché “Dio aiuta”. Il ricco, smarrito nel lusso, perde persino la propria umanità. Non è teologia astratta: è denuncia delle diseguaglianze reali, anche nella città di Alatri, dove convivono ricchezze sproporzionate e povertà invisibili.
Da qui la seconda svolta teologica: “dare un nome ai poveri”. Non statistiche ma volti. I bambini non nati, i malati, i morenti, i migranti, gli oppressi. Dare loro un nome significa riconoscere che ogni creatura è sacra e irripetibile. È la concretezza di una Chiesa che non si limita a predicare, ma si fa carico delle storie.
Non manca, tuttavia, un monito anche ai ricchi e ai potenti: non sono esclusi dal cammino, anzi devono essere accompagnati. Anche loro hanno un nome, anche loro sono figli del Padre. La conversione — la metánoia evocata dal Vangelo — riguarda tutti.
Il seno di Abramo

Infine, il passaggio più alto: il “seno di Abramo” e gli “inferi” non come luoghi ma come condizioni esistenziali. Non c’è vita che non possa essere toccata dalla misericordia, ricorda Marcianò con parole di Leone Magno e di Papa Francesco. Qui il vescovo torna al cuore del messaggio: la speranza che nasce dall’alzare lo sguardo verso l’Alto, proprio come suggerisce il nome della città.
In questa omelia si intrecciano radici e futuro, tradizione e Concilio Vaticano II, la pietà popolare e la teologia della liberazione dai falsi idoli della ricchezza. Con una sottolineatura che vale come programma di episcopato: fare di Alatri una “città eucaristica”, capace di trasformare il miracolo custodito da secoli in missione viva per il mondo.



