La “questione meridionale di Giorgia”, dove inizia la piccola febbre di Fdi

Bicipiti al centro e un po' di vitamine al Sud, perché il partito di Meloni non è solo quello "strong" che si è visto ad Anagni

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Rapporti di forza. È tutta una questione di rapporti di forza. Anche e soprattutto all’interno delle alleanze. Specialmente se sono alleanze di governo che tengono il timone di un Paese complesso e cervellotico come l’Italia. Massimo Ruspandini lo ha capito bene e forse meglio di tutti, questo mood, e da Anagni ha finto di calare briscole nostalgiche di solo lessico ma per affermare una realtà attuale ed immanente.

Che mentre ad Anagni la Lega organizza convegni dove ci va poca gente e i leghisti soffiano freccette avvelenate sui fatti di Ceccano, Fdi va nello stesso posto dopo pochi giorni e mostra i bicipiti. Perché alla fine è tutto un problema di rapporti di forza e con il Rosatellum come scacchiera di gioco non si lotta solo contro gli avversari, ma anche inside. Con toni minori ma non per questo meno cruciali.

I “manipoli di eroi” di Ruspandini

Massimo Ruspandini

Il deputato di Fratelli d’Italia e presidente provinciale del partito di Giorgia Meloni ha usato la Sala della Ragione del comune di Anagni per indicare i “padri fondatori” del Msi come “un manipolo di eroi”. Lo ha detto per ricordare che molti di essi facevano la fame. Ha tributato l’onore delle armi alla svolta di Fiuggi, spiegando che “tutto è girato a partire da allora”. Solo agiografia su terreni infidi?

No, affatto, piuttosto la serena necessità di far capire che il Partito di Via della Scrofa non ha la febbre, e magari lasciare subdolamente che emergano le febbri degli altri. Quelli che ai convegni non fanno pienoni e che li usano per togliersi i ceci dalle scarpe. Allargando la prospettiva di analisi il format è molto più chiaro, ed è strategico, perché Fratelli d’Italia è sì un Partito in salute, ma non al punto da consentire scivoloni tattici.

Foti per Fitto ma non su tutto

Tommaso Foti

E non al punto da mettere Giorgia Meloni nella casella gonza di chi, dopo aver surrogato Raffaele Fitto con Tommaso Foti nelle deleghe su Pnrr, Coesione e Affari europei, non si è neanche sognata di mollargli anche la delega per il Sud. Perché? Due i motivi: Fratelli d’Italia ha un problema con le deleghe e le surroghe e soprattutto Fratelli d’Italia ha un problema con il Sud dello Stivale.

Proprio quello da cui comincia la Zes che aveva tenuto fuori le province del Basso Lazio, nel quale bisognerà votare alle Regionali cruciali in Campania e nell’iconica Puglia (quelle che Meloni ama e che ha dato i natali proprio a Fitto). Un Sud in cui i bicipiti del Partito della premier sono nerboruti ma non gonfi. Perché non hanno gli steroidi del sovranismo 2.0 ma conservano i germi di una Democrazia Cristiana che occhieggia più a Forza Italia che ad altri.

Dove comincia la Zes cominciano i guai

Ne sa qualcosa Matteo Salvini, che malgrado avesse spedito Claudio Durigon a fare il proconsole di lusso in Sicilia da quelle parti ci si è immolato lui e la sua Lega con sogni di geografia ecumenica. Tutto questo Meloni lo sa benissimo e si è tenuta una delega che vuole “governare” lai in prima persona, perché li la premier deve appaiarsi con la leader politica e sconfiggere la “febbre” di un partito forte ma non fortissimo.

Pasquale Ciacciarelli e Claudio Durigon (Foto: Andrea Panegrossi © Imagoeconomica)

Simone Canettieri de Il Foglio lo spiega numeri alla mano. Alle Europee di giugno e nella circoscrizione Italia meridionale “il Pd è arrivato primo, d’un soffio, davanti al partito della premier”. Con un 24,34 contro 23,58 per cento, con il M5s al 16. Meglio è andata, per Meloni, nelle isole come piazzamento seppur con un non esaltante 21,29 (sette punti sotto la media nazionale)”.

Sotto Caserta tutta un’altra storia

Sotto il parallelo di Caserta-San Nicola non si scherza più insomma, e per picchiare duro servono immagine ed azioni iconiche della capa, al netto di colonnelli abbastanza bravi ma non bravi abbastanza. Anche perché il tasso di rissosità ctònia all’interno della maggioranza non accenna a scemare, e lì si impone un protocollo difficilissimo. Quello in cui non solo fare utility di questa rissosità per Fratelli d’Italia, ma evitare che la utility si trasformi in frattura vera una volta se Antonio Tajani e Matteo Salvini decidessero di passare dalle danze di guerra ai tomahawk sulla capoccia.

Foto: Giuliano Del Gatto © Imagoeconomica

E qualche avvisaglia ci sarebbe già stata, anche se poi Meloni è la prima a gettare acqua sul fuoco. Canettieri è venefico: “La premier in pubblico continua a sminuire i contrasti tra Lega e Forza Italia, in privato organizza a casa apericene di maggioranza. Tuttavia sembra essere stanca – ‘me so’ scocciata’ – di questo andazzo, seppur fisiologico”. Il guaio è che le linee di frattura di questo sisma tutto interno alla maggioranza di governo sono grosse.

Ci sono le motivazioni della Consulta sull’Autonomia, con una legge “che dovrà ritornare in Parlamento dopo essere stata fatta sostanzialmente a fettine”. C’è Tajani che fa il sornione e spiega che c’è bisogno di correzioni “ma senza fretta perché c’è tempo fino al 2027 perché le priorità ora sono altre, a partire dalla giustizia”. E c’è Salvini che oggi è come una piastra di Petri per la coltura. Un uomo-luogo in cui germinano la sentenza per Open Arms, il caso Canone Rai, la leadership smosciata ed un Codice della Strada talmente trucido che a paragone Dracone pare un hippie all’Isola di Wight.

Surrogo ergo sum

Augusta Montaruli

Su tutto questo incombe il Sud, dove la Lega perde, Forza Italia tiene e Fratelli d’Italia teme. Teme di non riuscire a radicarsi al punto da diventare epicentrico oltre il carisma mainstream della leader. Leader che sul Sud adesso scommette tutto e fa venire l’ittero a Nello Musumeci che invece nella delega per il Sud ci sperava come regalo di Natale. Perché in tempi speed Giorgia Meloni dovrà surrogare Galeazzo Bignami ai Trasporti, Augusta Montaruli all’Università e Vittorio Sgarbi alla Cultura.

Dovrà capire cosa fare di Daniela Santanché prima che magari glielo faccia capire un giudice. E come fare in modo che la sua personale “questione meridionale” vada oltre la “febbre” di un partito che lì, al Sud, è importante ma non portante. E questo Meloni non può permetterselo a due anni dal bis a cui aspira, magari con il premierato riformato.