
Due mandati presidenziali e due lustri per tenere fede a quello che comportano: con equilibrio ed umanità
“Non mi hanno portato il discorso…”. Poco meno di un anno esatto fa Enzo Salera si ritrovò a pronunciare queste parole nella peggiore delle circostanze. Come Sindaco di Cassino era Anfitrione per le celebrazioni degli 80 anni dalla distruzione della Città che prese il nome di “Martire” e l’Oro al Valore. E come ospite aveva, fisicamente ed a meno di tre metri da lui, Sergio Mattarella. Cioè il Presidente della Repubblica.
Ed avere il Capo dello Stato in attesa del tuo discorso quando di quel discorso e della relativa cartellina non c’è traccia per un equivoco nel cerimoniale è un po’ come essere il manager di Pupo al Festival dell’Isola di Wight. Cioè parafulmine terminale di una potenziale catastrofe.
Il discorso a braccio di Salera

Salera non si scompose e, in quanto cassinese, disse le cose che doveva dire. Le disse meglio e con più piglio emotivo di quanto non sarebbe risultato da centomila discorsi preconfezionati.
Dal canto suo il Presidente Mattarella fece due cose distinte, e sintomatiche: sorrise appena quando il sindaco annunciò di non avere la cartella. E si complimentò con lo stesso quando apparve chiaro anche a lui che quella cartella poteva restarsene tranquillamente dov’era.
Empatia ed equilibrio. Umanità schietta e rigore istituzionale. Come quando, sotto botta del Covid, in un memorabile fuori onda col suo portavoce e prima di un discorso ad una Nazione terrorizzata il Presidente si lasciò scappare quella frase.
“Neanche io vado dal barbiere…”

“Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io”. Il Presidente aveva i capelli ritti come quelli di un cacatua appollaiato sull’alta tensione, e quella sua candida ammissione catturata e rilanciata sui media prese il tono di un milione di discorsi ufficiali.
Perché se neanche il Presidente andava a farsi potare la zazzera allora volle dire che i nostri sacrifici e le nostre rinunce avevano un senso. E che non c’erano papaveri fuori dal recinto della legge e popolo aggiogato ai pali dello stesso. E che sì, alla fine ce l’avremmo fatta, insieme.
Anche Mattarella ce l’ha fatta, a restare Capo dello Stato per 10 anni. Li compie proprio in questi giorni: la sua prima elezione avvenne il 31 gennaio del 2015, ed il 29 gennaio del 2022 ci fu la riconferma, con il Presidente che aveva le valigie già fatte ed aveva già “preso casa” nella sua Palermo con tanto di foto dello sbaraccamento.
Meccanico e sentinella
Dieci anni che sono parte di 14 per due settennati, dieci anni in cui Mattarella ha dato prova di essere quello che ha sempre detto di essere e voler restare: un meccanico ed una sentinella. Meccanico perché ogni tanto gli è toccato aggiustare le leggi secondo il manuale della Costituzione. Sentinella perché ogni volta che quelle leggi e gli uomini di rango che le partoriscono-decretato-applicano hanno scarrociato lui è arrivato.
Discreto, mai sopra le righe. Ed ha sorvegliato che tutto quello che l’Italia doveva essere come sistema complesso fosse rispondente a tutto quanto sta scritto dell’Italia nel solo Libro che per l’Italia è rotta. Quello grosso, quello di cui conosciamo a malapena una decina di articoli (grasso che cola).
Quel grosso Libro là

Quello che usiamo sempre più come collutorio per indicarne i nemici invece che come faro per coltivare, sia pur nella dialettica politica, la comune missione. E, anche al netto delle centinaia di circostanze, analisi, letture e perfino critiche che possono essere mosse a quanto il Colle ha rappresentato in questi due lustri, una cosa spicca forse più di tutte. E’ un passaggio sottile, non ha il tono roboante dei cazziatoni garbati che Mattarella ha fatto a chi “toccava” l’Italia e gli italiani.
Né possiede lo shining dell’aneddotica forte su un personaggio che sopra le righe non ci sa stare come uomo, figuriamoci come Capo dello Stato. No, quello che colpisce di più di Mattarella è stato ed è tuttora il suo ruolo, cruciale, nel secondo mandato.
Sul Colle con Meloni a Chigi

Lui è stato il Primo Presidente della Repubblica chiamato a garantire che girasse ogni rotella del meccanismo con un governo di destra-destra al potere. Nessuno evochi gli esecutivi di Silvio Berlusconi, il paragone non regge. Come Presidente della Repubblica e con tutto il gravame dietrologico derivante dall’avvento di un team per gran parte con genealogia storicamente riconducibile al fascismo Mattarella si è dovuto scoprire arbitro al cubo.
E non solo perché c’era, spesso con iperboli preconcettuali, da “sorvegliare la condotta” delle new entry, ma soprattutto perché c’erano da tenere a bada tutti gli altri. Quelli che negli anni al Presidente hanno tirato la giacchetta decine di volte, invocando violazioni e sussumendo che una patente di libertà più datata sia viatico per essere ascoltati di più. Ma la democrazia è altro, per fortuna.
La missione in una risposta
La risposta, la migliore risposta dell’universo la diede proprio lui, Mattarella, quando durante un discorso citò un aneddoto. Lo rammenta AdnKronos. “Un giorno mi ha detto un ragazzo, non tanto ragazzo, era già avanzato: ‘Presidente non la promulghi questa cosa, perché lo fa a fin di bene’. Gli ho risposto: ‘Guai a violare le regole a fin di bene perché si abilita poi chiunque a farlo a fin di male’! Le regole vanno rispettate sempre!”.

Come Socrate tra cicuta e Leggi. E ancora: “Ciascun potere ha dei limiti che deve rispettare, accettando gli interventi altrui. E anche, naturalmente, rispettare i limiti che ha lui stesso. E io cerco costantemente di rispettarli”.
Sentinella sempre, meccanico quando serve. E italiano come tutti e “più” di tutti. Non molli, Presidente.