Meloni da Trump: tra diplomazia necessaria e rischio solista

La visita di Giorgia Meloni a Washington per incontrare Donald Trump solleva questioni diplomatiche rilevanti. Rappresenta un'opportunità di dialogo con gli Stati Uniti su temi strategici, nonostante le critiche riguardanti la mancanza di una delega formale dall'UE. Meloni cerca di capire le dinamiche transatlantiche. Senza sottomettersi.

Antonella Iafrate

Se è scritto chiaro si capisce

L’imminente visita di Giorgia Meloni a Washington, dove incontrerà Donald Trump, accende un dibattito che va oltre i confini della politica italiana. È un viaggio che mette in luce il doppio volto della sua iniziativa: da un lato l’opportunità concreta di riaprire il dialogo con gli Stati Uniti su temi strategici come i dazi europei; dall’altro, il rischio di muoversi in uno spazio che spetterebbe, almeno formalmente, all’Unione Europea.

Critiche per tattica

Giorgia Meloni

Chi critica la premier lo fa spesso per riflesso condizionato, invocando un europeismo più tattico che convinto. È vero, non ha ricevuto alcuna delega formale da Bruxelles. Ma è altrettanto vero che la politica estera europea non è mai stata un campo completamente omogeneo. I grandi Paesi dell’UE, Francia e Germania in primis, hanno da sempre coltivato rapporti bilaterali con Washington. Non c’è motivo per cui l’Italia non debba fare lo stesso, ora che ha una linea di dialogo diretta con la Casa Bianca. Rifiutare e restare a casa significherebbe una sudditanza psicologica non nei confronti della Ue (il che potrebbe avere anche una ragione) ma nei confronti di Parigi e Berlino che finora non si sono mai poste il problema dell’Europa.

In realtà, il vero nodo è tutto politico. Lo è se è vero che Giorgia Meloni va da Trump non per ottenere favori unilaterali, ma per provare a capire – e magari spiegare agli alleati europei – cosa ha in mente l’ex presidente americano. I dazi sono un problema comune: nessuno meglio di un partner storico come l’Italia può farsi interprete di una mediazione costruttiva, anche in assenza di una delega ufficiale.

Diplomazia e non avventura

Donald Trump

In questo senso, la visita è un’occasione diplomatica, non un atto di avventurismo. Giorgia Meloni non è così sprovveduta da chiedere un trattamento preferenziale per l’Italia: sa bene che una simile richiesta le si ritorcerebbe contro, sia a Bruxelles che a Roma. La vera posta in gioco è un confronto diretto, necessario, con un interlocutore difficile e spesso imprevedibile.

Trump, del resto, ha già mostrato umori altalenanti nei confronti degli alleati europei. Ha giocato una partita d’azzardo: al momento di calare le carte ha rivelato di avere in mano solo riempitura e nessun asso. È per questo che ha ingranato una precipitosa retromarcia. Ha innescato la fuga dai titoli di stato statunitensi e dal dollaro, che venivano considerati un bene rifugio; ha prodotto un calo del prezzo del petrolio che rischia di far saltare l’economia del suo stesso Paese. Una cosa è essere un uomo d’affari, cosa diversa è giocare su uno scenario globale che richiede conoscenza, competenza, diplomazia.

Capire, non sottomettersi

Giorgia Meloni a colloquio con Donald Trump

Ma su alcune questioni – sicurezza, difesa, ruolo della Cina – esprime preoccupazioni che attraversano anche le amministrazioni democratiche. Capire come pensa, cosa vuole, dove intende portare i rapporti transatlantici, è oggi una priorità. Sotto questo punto di vista parlare con lui non è un atto di sottomissione, non è andare a baciargli le terga ma un gesto di realismo.

Certo, non mancano i rischi. Trump non è noto per la delicatezza nei rapporti personali: mai dimenticare il trattamento riservato a Volodymyr Zelenskyj, in una sede ufficiale, in un incontro ufficiale. Non è escluso che metta Giorgia Meloni in difficoltà mediatica, come accaduto ad altri leader suscitando ad esempio la reazione d’orgoglio di Emmanuel Macron che non s’è fatto mettere i piedi in faccia, ricordando che non era ad un colloquio d’affari ma era lì in nome e per conto della Francia.

Un errore più grave

Ma rinunciare per paura ad un confronto così rilevante sarebbe un errore più grave. La politica richiede anche il coraggio di esporsi. Va messo in bilancio che c’è un risultato minimo: la premier deve tornare con qualche risultato concreto, che potrebbe essere un segnale diplomatico capace di aprire un dialogo su basi diverse. A Donald Trump non conviene trattare Giorgia Meloni con la superbia riservata a Macron né con la tracotanza riservata a Zelenskyj: perderebbe l’unico interlocutore capace di mediare tra lui e l’Europa. A Giorgia Meloni non conviene dare baci diplomatici inappropriati: si auto affonderebbe alla prima missione di spessore mondiale.

Chi teme un “omaggio ideologico” al leader della destra populista americana dimentica che Meloni, pur essendo vicina a Trump su alcuni temi, ha sempre mantenuto una distanza prudente. Nessun fanatismo, nessuna cieca adesione. Solo un atteggiamento pragmatico e attento, che oggi potrebbe rivelarsi un vantaggio.

Il vero errore sarebbe stato restare a Roma ad aspettare che l’Europa parlasse con una voce sola. Perché, al momento, quella voce unica non c’è. E quando c’è stata non ha mai considerato l’Italia. Qualcuno, in attesa che arrivi, deve pur parlare.