
Giorgia Meloni, in Aula a Montecitorio, affronta la crisi globale, sottolineando l'importanza della difesa italiana e cercando un dialogo con l'opposizione. Non si dichiara neutrale, ma evita il coinvolgimento militare. Puntando sulla credibilità internazionale.
Mare in burrasca alle spalle ed un equipaggio inquieto sotto coperta, Giorgia Meloni sceglie il ponte dell’Aula di Montecitorio per tracciare la rotta. E lo fa con parole pesate, sguardo cupo: la posta in gioco stavolta è altissima. Il mondo balla sull’orlo di un’altra guerra che rischia di incendiare il pianeta, gli attacchi iraniani alle basi americane sono un campanello d’allarme che rimbomba forte anche a Roma. E il governo – sotto pressione – cerca l’equilibrio tra prudenza diplomatica e fermezza militare, tra atlantismo convinto e attenzione all’opinione pubblica italiana, che la guerra non la vuole.
Il biglietto da pagare

Maurizio Crosetto, ministro della Difesa, esce di scena prima ancora che i riflettori si spengano. La premier entra e riesce dall’Aula più volte, visibilmente segnata. Ma quando prende la parola, non ci sono tentennamenti. Tiene la barra dritta. Rivendica la linea italiana, ribadisce il “no” al coinvolgimento militare (per ora), ma non chiude la porta agli impegni con gli alleati. E lo dice con una frase tagliata col coltello: “Non lasceremo l’Italia esposta, debole e incapace di difendersi”. Tradotto: il 3,5% del Pil per la difesa e l’1,5% per la sicurezza non sono numeri astratti, ma la condizione minima per non essere spettatori nella storia.
Eppure, l’operazione Meloni è anche squisitamente politica. Perché il suo discorso alla vigilia del Consiglio Europeo è, in controluce, un tentativo di riallacciare i fili sfilacciati con l’opposizione. Tende la mano a Elly Schlein, la chiama per nome, promette un canale di dialogo. E nella replica lo amplia. Niente bordate, niente stilettate. La parola chiave è “convergenza”. Su Gaza, su Kiev, sul negoziato con l’Iran. Anche se poi Schlein e Conte non si accontentano, e chiedono – nero su bianco – che l’Italia si chiami fuori da ogni possibile escalation.
Neutrali no

Non è un sì alla guerra, quello della premier. Ma è un no chiaro alla neutralità. E il passaggio sulle basi militari è cruciale: “Non è stato chiesto l’uso delle basi. E posso dire che penso non accadrà. Ma se mai accadesse, sarà il Parlamento a decidere”. Un colpo alla chiarezza, uno alla democrazia parlamentare. E uno, neanche troppo velato, a chi governava prima: “A differenza di quando al Governo non c’eravamo noi”.
Si rischia l’effetto teatrale arriva quando Giorgia Meloni, in piedi, alza la voce: “Non sono subalterna a nessuno. Sono leader di una nazione che conta. Non perché io conto, ma perché sono presidente del Consiglio di una nazione che si chiama Italia”. Standing ovation. Ma non tutti si alzano: la Lega applaude ma resta seduta. È un dettaglio, ma parla.

Probabilmente, sul comodino la premier ha una foto di Margaret Thatcher. E le piace la risolutezza della Lady di Ferro. Non è un caso che l’abbia citata: a modo suo, Giorgia Meloni è più thatcheriana che atlantista. E quando difende l’aumento delle spese militari, cita la Lady di ferro per dire che fare ciò che è giusto non è mai popolare all’inizio. Ma serve coraggio. E un piano. Quello che chiede a Bruxelles per conciliare il Patto di Stabilità con i nuovi target Nato. “Chiaro, trasparente, sostenibile”.
Anche questo è un avviso ai naviganti. Perché se il mare si agita, meglio sapere in che porto ci si vuole riparare. E Giorgia Meloni, per ora, quel porto lo ha scelto: scommette sulla credibilità internazionale. A qualsiasi costo.