Message in a bottle per Giorgia ed Elly: troppo vaghe in un momento cruciale

Due leader a confronto in uno dei momenti più difficili degli ultimi 50 anni, e l’impressione è che abbiano gli stessi limiti

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Danilo Grossi, ex assessore saleriano a Cassino che di Elly Schlein è uno degli uomini (pardon, una delle persone) di cerchio fiduciario, recentemente ha giocato a padel. Lo ha fatto nella Città Martire in occasione del “Primo torneo Città per la Pace”. E ha fatto benissimo, anche a contare che nel padel si fa punto anche se la palla colpisce direttamente il corpo di un avversario.

Che è un po’ il game di Elly Schlein contro Giorgia Meloni in questi tempi di guerre, bombe che scavano nel cemento, morti di prima prima, di prima e di ora. Senza che il mondo sia stato finora capace di scongiurarli. E senza che le due principali attrici politiche del nostro Paese siamo riuscite a scavalcare il clichet dei ruoli ambigui che sono toccati. Loro.

Accomunate dal format

Quali ruoli? A pensarci bene sia la premier che la leader Dem sono accomunate dallo stesso destino gramo: un format ambiguo che le mette sempre di fronte ad un bivio, ad una scelta.

Quale? Quello tra essere ciò che sono e per cui sono arrivate alla ribalta ed essere quello che Storia e ruolo impongono loro di essere, cioè una versione mediata e praticona del loro originario “furor ideologico”. Ed un po’ come nella splendida “Message in a bottle” dei Police entrambe stanno ricevendo segnali inequivocabili di questa loro affannosa ambiguità.

Non solo da chi le attende al varco, ma l’impressione è che quel messaggio arrivi da loro stesse, dalle loro condotte e dal loro annaspare nei mari bui di questi tempi basici e guerriere.

“Quel che è giusto dall’inizio”

Donald Trump (Foto: Saul Loeb / AFP / Ansa)

“È passato un anno da quando ha scritto il mio messaggio, ma vorrei sapere quel che è giusto fin dall’inizio”. Basterebbe concentrarsi sul recente dibattito alla Camera per capire che non è solo un problema di coesione fra tutte le forse politiche in un momento delicatissimo, ma che c’è di più.

Meloni è sempre in bilico tra vaghezza europeo-istituzionale e fermezza sovranista in salsa israelo-trumpiana, Schelin dal canto suo fa la funambola tra massimalismo pacifista e stradaiolo e pacatezza socialdemocratica.

E nessuna delle due appare più convincente d uno standard miserello, di quelli buoni al massimo ad intortare la nonna sulla poltrona di casa dopo un pomeriggio con la Myrta Merlino su Canale 5. Un po’ poco per questi tempi, un po’ troppo per questa gente italiana che è molto più delle sue nonne rincoglionite davanti alla tele.

Poco convincenti, entrambe

In buona sostanza, per partire dalla premier, Meloni non ha aggiunto nulla di serio al dibattito: ha stemperato il tutto in generiche affermazioni, a volte ossimore con precedenti detti del personaggio. Ha condannato i fatti di Gaza ma ha ribadito che tutto sommato le guerre preventive contro gli stati canaglia sono la giusta via.

Poi si è ricordata dov’era ed ha assicurato che l’uso di eventuali basi Usa su territorio nostrano dovrà avere un passaggio parlamentare. Dove cioè avrà i numeri per essere quella che non ha ricusato la democrazia ma che tutto sommato un liscione a Donald lo deve fare.

E Schlein? Pervenuta ma con il solito mood “contiano”, tra l’altro nel caos assoluto di cinque mozioni diverse presentate dalle opposizioni. Certo, Il Pd si è astenuto su quella mozione un po’ surreale del M5s su una “una possibile collaborazione con la Russia sul gas”, ma il dato della Segretaria è un altro. Innanzitutto che a spingere per l’astensione sono stati soprattutto Lorenzo Guerini e Lia Quartapelle, poi che l’impressione finale di ogni azione parlamentare di questo Pd sia quella delle confusione.

Quartapelle, Guerini e il mezzo caos

Lorenzo Guerini (foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

Un piccolo caos guerreggiante tra le pulsioni massimaliste e le necessità riformiste, un perenne “cogito” in cui Schlein sembra la rana bollita di Chomsky, quando egli descrisse la tendenza dell’umanità all’inazione di fronte a problemi che si sviluppano lentamente.

A fare le spese di questi due canali comportamentali ambigui è stata una cosa che, con tre guerre di fatto in corso, dovrebbe essere il linimento ed il cardine primo di ogni democrazia occidentale evoluta: la concordia vera, la collegialità di intenti di fronte all’eccezionalità cupa del momento.

Sull’uso delle basi nostrane Schlein non ha resistito al richiamo contiano di fare “quella della piazza” che mette i puntini sulle “i”. E sul concetto di “trattativa”, condensatasi nell’annuncio di una tregua di 12 ore ottenuto su canali che non ci sfiorano, Meloni non ha resistito nel riproporre quel format vago e parolaio per il quale non si capisce bene da dove si debba cominciare.

Soprattutto se nel cominciarla si possa considerare un ruolo del nostro Paese che non sia (più) quello di un Tajani allo sbando. E tutto con quel messaggio in una bottiglia spersa tra i marosi di un mondo che si sta incendiando.

Messaggio che dice a due leader di essere di più di quel che stanno facendo vedere.