Record o disastro, i guai della Sanità

I rimpalli, le cifre senza criterio ed i problemi veri: nella sola Asl di Frosinone sono 27.120 le prestazioni non eseguite nei tempi standard. Un universo che stenta a recuperare una centralità riconosciuta solo a chiacchiere

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

“Ci saranno sicuramente risorse, ma la suddivisione tra 2025 e 2026 è in corso. Appena avremo i dati li daremo: parole e musica recentissime di Orazio Schillaci, che sulla Sanità nazionale da lui presieduta non era andato oltre questo. Un’ovvietà lessicale che forse, in un altro Paese, lo avrebbe spedito a piegare i bugiardini delle Zigulì. Non è solo colpa sua, questo va detto ad onore del vero. Non la è perché in Italia il gap tra politica e tecnica è talmente forte che spesso i decisori massimi sono disinformati quasi quanto i laqualunque fruitori finali.

Ma non è una scusa e non può esserlo, specie se si parla di Sanità e soprattutto se sul tema è in corso la solita maratona scema di polarizzazioni inutili. Da tutto benone a non va bene una ceppa, in pratica, a secondo di chi di Santità ne parli e di quanto consenso ci abbia messo sopra, a quella casella.

La roulette delle cifre politiche

Orazio Schillaci

Perché sì, il nostro star bene o male se ne sta poggiato sulla roulette di una politica che per lo più ci si fa i gargarismi, con certe cose. Roulette russa per i cittadini, da casinò per i proclamatori. E il motivo nessuno lo dice: la Sanità come servizio ecumenico ed efficace è una chimera per la più parte dei cittadini, ma l’establishment è sempre mediamente al sicuro, anche nella palta attuale.

Una telefonata giusta ti salva la vita, ti sblocca la mummificazione in Pronto Soccorso o ti mette un letto speed sotto le terga. E in Italia se a chiamare è un potente o uno che ha un potente in rubrica telefonica certe tare neanche le vedi o le vedi poco. Perciò non fanno sistema e, quando la politica tocca il tema, mediamente lo fa solo in punto di demagogia ipocrita.

Nel Lazio sempre più rinunciano alle cure

L’ospedale Fabrizio Spaziani di Frosinone Foto: Archivio Zeppieri

Prendiamo il Lazio ad esempio. I dati dicono che nel 2023 il 10.5% dei cittadini della regione ha rinunciato alle cure. Completamente. Il Lazio è secondo a livello nazionale, in questa hit poco edificante. Ed è la Regione che ha segnato l’incremento più sostanzioso di questo trend: + 3.6% in soli 12 mesi. E “passando da 6.9 a 10.5%, superando in maniera significativa anche la media nazionale, ferma al 7.6%. Mettiamola meglio: nel Lazio ci sono famiglie e persone che hanno bisogno di diagnosi e cure. E che ci hanno rinunciato.

Non hanno i soldi per pagare, non possono accedere alle strutture che per i noti motivi o non le vedono o le sputano frettolosamente via. Oppure si infrangono contro liste di attesa. Elenchi che fiaccherebbero un decatleta, figuriamoci un malato in una famiglia monoreddito dove devi scegliere tra fare la fila per il nonno o andare a lavorare con un contratto capestro ed un capo mannaro.

I fondi annunciati da Rocca

Francesco Rocca

Il presidente della Regione, Francesco Rocca, ha annunciato un piano di interventi sulle liste di attesa: 17 milioni di euro per abbatterle. O quanto meno contenerle. Insomma, è tutto un problema di fondi, problema atavico e serio. Problema che, in quanto tale, meriterebbe un lessico politico meno da spot e più settato su numeri ed analisi obiettive, specie adesso che la sanità sta in casella di Legge di Bilancio.

Tanto per fare un esempio. Nella sola Asl di Frosinone sono 27.120 le prestazioni non eseguite nei tempi standard. Sono di 10 giorni per visite o esami con priorità “breve”, che salgono a 30 (per le visite) o 60 (per un esame) in caso vengano classificate come “differibili” e 120 giorni per le “programmabili”. Risonanze magnetiche, tac ed in alcuni casi anche semplici radiografie hanno atteso oltre i tempi in 4.912 casi; se si prenota oggi una risonanza al cranio (10 giorni di attesa standard) si viene schedulati a febbraio 2025.

Ragioniamo sulla domanda delle cento pistole: quanti soldi pubblici sono stati messi in slot sanitario nazionale? Partiamo da Giorgia Meloni, che ormai usa la parola “record” anche quando contempla le prestazioni evacuatorie del suo cane. E’ vittima di se stessa, la premier, e di un bisogno freudiano di “coazione a ripetere” – a se stessa ed al popolo sovrano – che (grazie a lei) va tutto benebene. Perciò dalla Finanziaria approvata in Cdm ti esce lo slogan per cui su ospedali e ambulatori sono stati messi soldi pubblici che rappresentano “record della storia d’Italia”.

Il report Agenas: sbagliato

Coronavirus, ambulanza entra al Pronto Soccorso Foto © Stefano Cavicchi / Imagoeconomica

Lorenzo Borga su Il Foglio, non proprio Il Manifesto, ricorda che Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, mantiene ancora online sul proprio sito un rapporto. Nel quale la spesa sanitaria 2024 in rapporto al pil risulta gonfiata da un grossolano errore statistico”. Errore dimostrato mesi fa proprio dalla testata diretta da Claudio Cerasa. Vediamolo, questo errore grossolano, anche al netto della versione due. Quella cioè di Giuseppe Conte per cui invece “la spesa sanitaria ha subito un crollo negli ultimi due anni”.

A chi credere? E soprattutto, è possibile verificare empiricamente chi abbia detto la verità? Trattandosi di sanità sarebbe meglio di no, ma il dato irreversibile è che prima o poi i conti con un camice bianco ce li facciamo tutti, perciò meglio assaggiare l’amaro boccone, e senza additivi di bottega. I dati per cui è facile affermare che Meloni come al solito esagera sono evidenti, ma vanno ribaditi. I soldi stanziati per coprire le spese delle Regioni in tema di sanità sono pari a “136,5 miliardi previsti nel 2025 sono il record storico. Ma come lo erano i 134,1 del 2024. Così come 128,25 del 2023. Ma anche i 124,1 miliardi dell’anno precedente.”

Inflazione, Pil e valore del denaro

Giorgia Meloni

Che significa, oltre che se ogni volta c’è un record allora non c’è nessun record? Semplicemente che quei soldi vanno parametrati all’inflazione, una roba che in questi ultimi anni è tornata a ruggire. Insomma, quello che davvero conta è il “vero valore del denaro, che non è rappresentato dalla cifra stampata sulle banconote, bensì da cosa possiamo comprare con quel pezzo di carta. Questo vale per i consumatori, così come per le Asl che devono rifornirsi di amoxicillina o paracetamolo sempre più cari e pagare gli stipendi crescenti del personale”.

E ci sono altri fattori, tutti rilevantissimi: l’Italia è un Paese vecchio che invecchia sempre più, perciò il numero di fruitori di quei soldi sale, e il loro potere di copertura quindi scende. Perché, in scala piccolina, se hai dieci ultra settantenni col femore rotto da curare è una cosa, ma se dopo un anno ne avrai venticinque a parità di danè da spendere ecco che quei danè cambiano faccia.

Rapporto al 6,3%: non è il top

Foto © Carlo Carino / Imagoeconomica

E daranno cifra tonda ad enunciarli in maniera generalista – cifra “record” direbbe Meloni – ma cifre risicate ad appaiarli con l’effettivo utilizzo pro capite. C’è poi il fattore Pil. Cioè quel parametro per cui le cure e la loro congruità sono legate al reddito: chi ha soldi li spende in farmaci non coperti e mirati o in trattamenti specialistici. Chi non li ha non va oltre un approccio basico. Ed insufficiente. Il Foglio va di summa: “Ecco perché l’indicatore che meglio coniuga immediatezza e completezza è la spesa sanitaria in rapporto al prodotto interno lordo”. L’Esecutivo ha ammesso però che il suo target è quello sanitario di uno “stanziamento in linea con la crescita del Pil nominale”.

E qui casca l’asino, si diceva una volta, perché “stabilizzare” non significa “incrementare”, perciò non può figliare per definizione logica alcun record. Su quale rapporto? Per il 2024 siamo al 6,3%, cioè un rapporto mai così basso dal 2004. Niente record quindi, ma neanche niente “eh, ai miei tempi…”, a voler considerare quel che dice Giuseppe Conte.

Conte come Cervone a San Vittore

Giuseppe Conte

Che sostiene come in Italia la spesa sanitaria in rapporto al Pil sia crollata rispetto ai suoi anni a Palazzo Chigi. Una cosa così ridondante non la si sentiva dai tempi dell’onorevole DC Vittorio Cervone che a San Vittore del Lazio voleva “portarci il mare” della sua Gaeta. Prendiamo in esame il 2020, con Conte premier. Lì il rapporto era molto di più di quello enunciato da Palazzo Chigi: al 7,4%.

Ma c’era la pandemia: cioè una cosa che richiese fondi extra eccezionalmente robusti, e che innescò un Pil ridotto ai minimi storici perché nessuno produceva (quasi) più nulla. Ovvio perciò che il rapporto fosse così sfasato ed a favore di quel che Conte proclama come antitesi a Meloni.

Il problema non è quindi stabilire chi abbia ragione tra coloro che di sanità parlano, ma dove siano andate a finire le ragioni (etiche e costituzionali) di chi di una buona sanità vorrebbe sperimentare gli effetti. E noi una mezza idea su dove siano finite quelle ragioni ce la siamo fatta: tutti.