Satnam, le parate solidali e la lotta al caporalato che è come il wrestling

Ad un anno dalla morte del 31enne bracciante indiano la situazione nel Pontino è pressoché immutata: almeno strutturalmente

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I morti sul lavoro possono diventare due cose: o totem temporanei e tag estemporanei su pezzi che sentono la sola usta del momento mainstream oppure moniti a fare meglio in maniera sistemica. Satnam Singh è morto in Italia, nel Pontino, dove le morti sul lavoro, c’è prova empirica, diventano solo gargarismo per qualche mese.

Quel 31enne bracciante indiano scaricato davanti all’ospedale di Latina a giugno 2024 con un braccio amputato da un macchinario agricolo, e morto dopo due giorni di atroci sofferenze, perciò è finito nella casella uno. Non avevamo dubbi.

Quella dei morti che fanno indignare giusto il tempo per accorgersi che i meccanismi alla base di quella morte e di quella indignazione sono più grandi di una politica quiescente.

Piccole politiche non crescono

O che forse la politica italiana è molto più piccola di quel che le si richiede. Lo ha spiegato in maniera splendidamente verista Angelo Mastrandrea su Il Post. Preambolo, preambolo di morte ed inciviltà: quando venne lasciato morire Satnam Singh si sollevò un polverone a livello nazionale che mise la provincia di Latina ed il fenomeno del caporalato dei posti a vocazione agricola al centro di una buriana mediatica.

Un po’ come successe a Caivano dopo alcuni brutali e barbari episodi di cronaca. Lo Stato accese i riflettori, invocò i media e mostrò i muscoli. Tuttavia lo fece come facevano una volta i lottatori di wrestling dell’allora Wwf: con tante mosse spettacolari ma senza “picchiare” davvero l’avversario.

E secondo un mood di “tutta scena” che nel caso delle battaglie di civiltà decisamente non funziona.

Come stiamo messi un anno dopo

Per avere prova di quanto, sostanzialmente, la morte di Singh sia servita solo a foraggiare un’indignazione estemporanea ma non a cambiare radicalmente il format di un caporalato tiranno basta aggiornare il file pontino sul tema. E scoprire ad esempio che a giugno scorso c’era stato un blitz degli ispettori del lavoro in un’azienda agricola a Sermoneta.

E lì erano stati individuati 10 indiani provenienti dal Punjab che approntavano la raccolta delle zucchine. Quanti di loro avevano un contratto? Uno su 10, “ma con un’azienda agricola di Terracina, a 50 chilometri di distanza”.

All’arrivo della Polizia era scattata una fitta rete di messaggi whatsapp al numero di Laura Hardeep Kaur. Si tratta della segretaria del sindacato del settore agricolo FLAI CGIL di Latina, “nata in Italia da genitori provenienti dal Punjab e parla la loro lingua”.

“Chiamate Laura”

La donna era accorsa a Sermoneta, e lì i controlli erano proseguiti. Dei 10 braccianti indiani due avevano un permesso di soggiorno ed otto avevano documenti falsi. E qui scatta un altro problema: chi fornisce permessi di soggiorno falsi a lavoratori in nero extracomunitari?

Satnam Singh (Foto © Ansa)

E chi riesce, ancora oggi, a tenere in piedi un format illegale dopo la morte orribile di Satnam Singh avvenuta solo poco più di 12 mesi fa? Sul Post la Kaur è stata lapidaria: “Tutto è tornato com’era prima”.

Eppure, al di là degli sforzi singoli che restano encomiabili, le soluzioni per quel che accade e continua ad accadere nel Pontino con il caporalato non mancano.

La ricetta di Niccolini

Le aveva indicate Luigi Niccolini, presidente di Confagricoltura Latina. A fronte di esigenze di raccolta spesso impellenti (alle piante non glielo puoi chiedere, di essere puntuali ed indifferenti a circostanze sterne nella fruttificazione) e di bisogni di mano d’opera con reperibilità veloce (l’ortofrutta marcisce) si poneva un problema.

Luigi Niccolini

Quello per cui spesso i caporali reclutavano braccianti esattamente quando questi ultimi cercavano di raggiungere i posti dove dovevano lavorare dai posti dove stanziavano.

Niccolini aveva proposto quindi di bloccare questa spirale di intermediazione illegale con soluzioni in housing. Ma per attuare questa procedura servono fondi, fondi ed uno Stato che abbia un piano, oltre che sterili e tardivi pruriti di solidarietà.

La foto con un braccio mozzato

Il numero di cellulare della Kaur è la sola bussola che i lavoratori illegali del Pontino hanno. Fu lei, racconta il Post, la prima ad essere avvisata della tragedia da cui scaturì la morte di Singh. “Mi arrivò una foto con un braccio in una cassetta, la posizione e il messaggio ‘corri incidente’. Pensavo che fosse un macabro scherzo, invece arrivai prima dei carabinieri e mi trovai di fronte a una scena agghiacciante”.

E il mondo che quella tragedia schiuse per l’ennesima volta non era affatto un mondo sconosciuto: paghe in nero a 5,50 euro l’ora, chilometri in bici sotto il sole e 11/12 ore di lavoro nei campi o in serra. Poi ritorno a “casa” e falsi contratti part time per eludere i controlli. Orrore, orrore puro e rovente come il sole che picchia sulle nuche degli ultimi.

Fornisco braccia

Tutto questo grazie ai “fornitori di braccia” che procacciano lavoratori in meno di un’ora e mezzo, senza contratto e senza alcun passaggio ufficiale.

Soprattutto senza che questo cancro abbia trovato una macchina organizzativa statale capace di gestire un fenomeno assurdo.

Un format dell’orrore sotteso che sta in bilico tra le esigenze di Pil di una Regione e di un territorio e quelle di civiltà di un Paese che si limita a piangere ipocritamente i morti, invece di evitare scientemente che muoiano. Perché non dimentichiamolo: oggi inizia l’estate ma solo per chi il sole lo sceglie per la tintarella. Per più di qualcun altro l’inv(f)erno non è mai finito.