Se la rivolta nel carcere di Cassino smentisce il Governo

Carceri, la realtà smentisce il Governo: la rivolta a Cassino è solo l’ultima spia del collasso. Cinquanta detenuti trasferiti nella notte.

Le rassicurazioni del governo Meloni sullo stato delle carceri italiane cozzano violentemente contro i fatti. La rivolta esplosa ieri sera all’interno del penitenziario San Domenico di Cassino ne è l’ennesima conferma. Nessun ferito, per fortuna: ma il primo piano della Seconda Sezione è stato devastato. Cinquanta detenuti sono stati trasferiti d’urgenza nella notte dopo che la calma è stata riportata con l’intervento del Gruppo di Intervento Operativo, dei loro colleghi arrivati dalla Campania dal Gruppo d’Intervento Rapido e del Nucleo cittadino di Roma. Una mobilitazione imponente, per una crisi che ormai non può più essere definita solo un episodio.

I numeri della crisi

Il sistema penitenziario italiano, in particolare nel Lazio, è al collasso. I numeri diffusi dal segretario generale della Fns Cisl regionale Massimo Costantino, sono drammatici: 1.450 detenuti in eccesso nella sola regione, a fronte di una capienza regolamentare di 5.282 posti. I presenti al 31 marzo nelle celle erano 6.732. Il personale di polizia penitenziaria manca all’appello per 859 unità. A Cassino, dove si è consumata la rivolta, ci sono 17 detenuti in più rispetto alla capienza e mancano 37 agenti per sorvegliarli.

E non è un caso isolato. Regina Coeli ospita 456 detenuti in più rispetto al previsto, Viterbo 265, Rebibbia 391, Rieti 200, Latina addirittura quasi il doppio della capienza regolamentare. In parallelo, tutti questi istituti sono gravemente sotto organico: a Rebibbia mancano il 31% degli agenti necessari, a Velletri il 27,6%, a Rieti il 27,4%, a Cassino quasi il 28%.

La resa dello Stato

Nicola Gratteri (Foto: Saverio De Giglio © Imagoeconomica)

In mezzo a questa emergenza, il Governo si rifugia nella retorica. Sabato scorso, su La7, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri ha denunciato pubblicamente l’assenza di dispositivi jammer per bloccare le comunicazioni telefoniche abusive nelle carceri. La risposta del Governo? “Non si può fare”. Perché? “Fa male alla salute”. Ineccepibile la risposta del magistrato: “Io ci convivo da circa vent’anni per evitare attentati e sono ancora vivo”.

Lo Stato non ne ha comprato nemmeno uno: e così nella Casa Circondariale di Frosinone nel recente passato è stato possibile far arrivare un drone per consegnare direttamente in cella ad un detenuto la pistola con cui ha regolato i suoi conti interni ed il telefonino con cui chiamare l’avvocato. Niente jammer a Frosinone e nemmeno nei principali istituti di pena nazionali. Un’ammissione di resa, mascherata da impossibilità tecnica.

Come se non bastasse, il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) è ancora senza un responsabile. Una poltrona vacante nel momento in cui la macchina carceraria italiana scricchiola sotto il peso della sua inefficienza. Senza una guida, senza investimenti reali, senza soluzioni strutturali.

Sovraccarichi

E nel frattempo? Gli agenti in servizio si fanno carico di piantonamenti esterni, doppi turni, orari fuori norma, con una compressione dei diritti sindacali che Massimo Costantino definisce chiaramente: “Una lesione dei diritti fondamentali”. Si accorpano i posti di servizio, si chiede agli agenti di coprire aree sempre più ampie con sempre meno uomini, in un contesto dove ogni errore può avere conseguenze gravi, per tutti.

Il governo continua a promettere, ma non nomina i vertici, non installa sistemi di sicurezza di base, non assume personale. E quando annuncia di farlo, la realtà è che rimpiazza solo una parte di quelli che sono andati in pensione. Così ogni giorno aumenta la distanza tra le parole e la realtà. Una realtà che parla con i numeri, e con le rivolte.