Un Conte per ogni conto: per contare dovunque senza scontare nulla

Il monumento vivente all'incoerenza. Dal Lazio consegnato al centrodestra per le sue strategie inconsistenti fino a decine di altri esempi. Nei quali Giuseppe Conte mostra quanto sia abile nel provare a tenere il piede in tutte le scarpe disponibili

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Nell’immaginario collettivo di chi la storia d’Italia ha avuto voglia e modo di centellinarla meglio, la figura di Agostino De Pretis è un’icona. Otto volte presidente del Consiglio dei Ministri e decine di volte ministro in dicasteri assortiti spesso con doppio ruolo, fu l’inventore del “trasformismo.

Oddio, diciamola meglio ché essere trasformisti in politica è prerogativa antecedente di millenni al nostro. Diciamo che lui il trasformismo lo elevò a canone. Insomma, De Pretis fece al cerchiobottismo quel che Cencelli fece alle lottizzazioni dei Partiti: gli diede un brand ed una patente di scuola politica.

Lo fece promuovendolo ed elevandolo dalla palta originaria di “cazzimmaa metodo con cui l’appoggio ad un’idea doveva prescindere dalla collocazione politica. Messa così è la cosa più prog del mondo, ma c’è anche il rovescio della medaglia. Quello per cui ogni idea altrui è buona se porta consenso e nessuna è buona davvero per scommetterci un po’ di onesto dissenso.

Il De Pretis pop del Terzo Millennio

Giuseppe Conte (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

Ecco, Giuseppe Conte si sta skillando come il “De Pretis” contemporaneo con una politica che stavolta agisce molto sul piano del “contro”, ma che strutturalmente è paro paro quella del suo predecessore post risorgimentale. Conte viene da un’esperienza che per molti sarebbe manna: è stato un perfetto sconosciuto fino all’investitura grillina come possibile premier. Poi è stato (ottimo per alcuni, mediocre per altri) premier nel periodo più buio della storia repubblicana che però ha riservato a chi lo ha vissuto in nicchia istituzionale i galloni di governante da procella.

Alla fine di quell’esperienza è diventato leader di un movimento snaturato e senza il perlage frizzante degli esordi, ma quadrato in struttura. Tutto avrebbe dovuto far presagire un percorso di serena coerenza per Conte, ma pare proprio che costui non sappia rinunciare al funambolismo ideologico ed alle nicchie strategiche di pensiero. Molto probabilmente “l’avvocato del popolo” di questa modalità ondivaga se ne è accorto poco perché lui ha in mente sempre quella coerenza di fondo che in molti casi è pezza peggiore del buco. Ma tant’è.

La Rai, i dem che inseguono e FdI nemico-amico

Giuseppe Conte

Gli esempi non mancano e molti di essi li ha sciorinati Il Foglio di Giuliano Ferrara. Conte è contro le lottizzazioni? Sì, fino a quando però poi non “vota con la maggioranza il contratto di servizio in Rai”.

Su questo tema in particolare Conte aveva lanciato bordate da marina a colui che ha sempre definito una specie di “stalliere” dell’esecutivo. Cioè quel Matteo Renzi che nel nome del funzionalismo anti ideologico sta da sempre tra critica tecnica e struscio indotto.

Inutile dire che il proprietario delle stalle per Conte era ed è quel Fratelli d’Italia con cui però l’ex premier è riuscito a spuntare una gemma di lottizzazione: la presidenza della Vigilanza farcita da qualche vicedirettore sciolto. A Conte va comunque riconosciuta la capacità olimpica di mettere ogni sua scelta a servizio di una coerenza che nel tempo ha fatto di lui il capopopolo perfetto, grazie anche alla complicità del Pd.

L’emorragia nella Pisana del dopo Zingaretti

L’addizione di Bruno Astorre

I Dem infatti sono talmente inattivi e spesso impegnati ad inseguire Conte in ogni sua mossa pop che hanno dimenticato come si fa ad azzerare le velleità dei massimalisti. Non lo sanno fare più molto bene perché il massimalismo oggi quelli del Nazareno ce l’hanno in casa con Elly Schlein.

Perciò Conte prende adipe di populismo e popolarità ma non fa mai la magia, l’alchimia buona che potrebbe far tornare a crescere i Cinquestelle nei sondaggi. E non solo in quelli, ma anche nella purezza dei ranghi. In Regione Lazio per esempio, dopo la stagione zingarettiana di una Roberta Lombardi oculata e in asse con il campo largo, erano arrivate le dolenti note di uno spartito al confine con la follia politica.

Fino all’ultimo secondo disponibile quell’anima candida del senatore Bruno Astorre (all’epoca Segretario Pd del Lazio) si era sgolata per far capire a Giuseppe Conte che i numeri c’erano e l’unica possibilità di non consegnare il Lazio all’onda del centrodestra stava nel confermare il Campo Largo costruito in dieci anni da Nicola Zingaretti. Non sapendo più come farglielo capire, Astorre aveva fatto anche un disegninon con l’addizione dei voti registrati nel Lazio alle precedenti Politiche.

Il suicidio Regionale del Lazio

Giuseppe Conte e Donatella Bianchi

Nulla da fare. Giuseppe Conte ha trovato sotto l’albero di Natale la disponibilità a candidarsi come governatore del Lazio data da Donatella Bianchi: una presa dallo studio di Linea Verde, totalmente incapace di difendere il lavoro fatto per 5 anni dal MoVimento in regione Lazio, massacrata alle urne e poi andata via senza nemmeno mettere piede un solo secondo nell’Aula della Regione Lazio. La disfatta di Caporetto è stata meno disastrosa.

La strategia di Conte ha portato alla consegna del Lazio al centrodestra, alla distruzione del Campo Largo, al dimezzamento dei Consiglieri del Movimento 5 Stelle scesi da 10 a 5. E siccome al peggio non c’è mai fine, pure la metà di loro ha smesso di credere nella sua linea e se ne sono andati. Una seconda generazione di eletti alla Pisana deboliedi intenti. Tanto debole da andare ad accasarsi con Forza Italia. Dal primo settembre gli ex consiglieri pentastellati Roberta Della Casa e Marco Colarossi sono in quota azzurra grazie alla campagna di reclutamento lanciata da Antonio Tajani.

“Allarmi, allarmi, siam populisti…”

Foto: Marco Cremonesi © Imagoeconomica

La vera cartina di tornasole del difficile rapporto di Giuseppe Conte con la coerenza è proprio… la coerenza. O meglio, quella versione della coerenza che per massimi sistemi esiste ed è fulgida, ma che poi si stempera in ossimoro ogni volta che Conte la usa solo come leggio demagogico.

L’Ucraina? Embè, lì all’ex premier non gli si può dire nulla: la guerra è stata uno sbaglio dopo i primi mesi in cui prenderle le misure era giusto. Però l’Ucraina va sostenuta ma non con le armi. Idem sul tema migranti, dove Conte è stato costretto a rincorrere la vecchia matrice di un M5S con forti innervature conservatrici. Sul caso terroristi di Hamas-Israele Conte fiuta le piazze molto meglio dei Dem.

Ma che ha dovuto diluire con la verve pop di un Partito che ha nella morte del Reddito di Cittadinanza il suo personale elemento di Martirio, martirio “di sinistra”. Senza contare che a colui che Donald Trump chiamava “Giuseppi” il ruolo tecnico di “vera ed unica opposizioneserve come il pane per mettere all’angolo il Pd. Oppure farsi ricorrere da esso fino alla Tierra Incognita dove i riformisti Dem impazziranno e faranno il loro putsch annunciato.

La finezza, la logica e la corda tesa per camminare

Andrea Orlando

Il Foglio cita un esempio che fece e fa scuola. “Quando Andrea Orlando provò a spiegargli che non poteva rifare il capo del governo col Pd visto che aveva firmato i decreti sicurezza di Salvini, lui rispose così”.

Cosa disse Conte che è avvocato e uomo di contraddittorio in finezza? Usò la finezza, ovvio, perché quella era la corda si cui camminare in quel momento agitando l’ombrellino. “Ti manderò i miei discorsi di allora, così potrai cogliere le sfumature di dissenso”.

Sfumature, sì. Sempre in asse, sempre coerente, perennemente in aplomb e in punto di verità quasi scoutistica e logica. Tanto da far credere che possa aver ragione Claudio Camparelli quando disse che “la logica ha già fatto notare che, se non c’è nessuna verità, neppure questa può esserlo”.