Le conseguenze della bellezza (di G.M.Sacco)

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

di Grazia Maria SACCO
Avvocato e blogger
Nel Salotto di Grazia

 

 

Uno dei miei sogni ricorrenti è me affacciata su uno spazio che non riesco a misurare con lo sguardo, come quando vi è un cerniera invisibile a separare mare ed orizzonte e tu non sapresti mai indovinarla.

E’ la vertigine che ci coglie quando ci perdiamo a misurare il cielo, lo osserviamo e vorremmo riprodurlo dentro di noi, per trovare un uguale immensità che non si spaventa di nessun temporale la vada ad attraversare, tanto sa che tornerà alla sua origine.

E la bellezza è proprio questo: la naturale origine di ognuno di noi; la vocazione, il talento con il quale sappiamo di poter attraversare il mondo, e soprattutto, sorvolarlo.

Ma si ha paura , soprattutto, e ferocemente, della bellezza.

Di essa ne devi saper aver cura e non sciuparla; non la controlliamo come le brutture, di cui possiamo imputare la colpa ad altri: la bellezza viene vista come una virtù e quella virtù è il seme da portare a compimento, è il quadro da dipingere senza sapere ciò che ne verrà, è il prolungamento del reale nella tua immaginazione, è la fatica di non arrendersi.

La bellezza è lo sguardo incuriosito sul mondo e l’orecchio teso, specie ai suoni , alle lingue straniere o lontane: perché l’eco di quello per cui siamo al mondo risiede nel fondo dell’anima e fin laggiù ci si arriva dopo una coraggiosa immersione: devi prima liberare il pavimento dalla superfice polverosa delle parole piene di pregiudizi, quelle che ti hanno insegnato per incasellare in fretta o quelle che l’educazione ti ha instillato come un mantra; devi trovare la porta, quella porta, tentare di aprirla gentilmente , a seconda della resistenza, fino a darle contro per far capire che tu , in giro per il mondo, senza la tua vocazione, non ci vuoi stare.

E’ ingarbugliato quel gomitolo, lo sappiamo. Eppure snodarlo è la sola arte che ci restituisce a noi stessi: fragili , certo, come lo possono essere soltanto i lottatori appena scesi dal ring, dove hanno dovuto fare a botte con le loro paure e le loro emozioni.

Ma senza quel ring, senza quel rapimento d’amore improvviso per una passione o una persona, un’idea, senza l’abbaglio per una meta, saremo spettatori stanchi o viaggiatori pigri, di quelli che si scattano i selfie ed ignorano il panorama.

Già il panorama: Leopardi trovava nella natura, in quell’oltre la siepe ove gettava lo sguardo, vagabondando fra le stelle, il senso di quel fuoco che gli ardeva dentro e che lo consumava, fino a fargli incurvare la schiena.

La gente vedeva solo quello, quella distratta, che il fuoco non sa cosa significa portarselo dentro: vedeva la curva, la cattiva salute, la tristezza di una condizione fisica e non guardava ciò che aveva incurvato quella schiena: il quadro dentro la cornice ha bisogno di osservazione e dolore, quel dolore dal sapore amare/ dolciastro con cui si scava nella roccia , con sacrificio, prima di farne uscire una forma.

Senza tendere a qualcosa o ad essere quel qualcuno che è scritto nel nostro D.N.A ogni rinuncia, ogni piccola tempesta, fosse anche la pioggerellina di fine estate o quella tipica londinese, ci stancherà le membra, perché essere desti è diverso che svegliarsi.

Destarsi significa essenzialmente meravigliarsi e tenere il cuore come una pentola a ribollire sul fuoco: significa schiudersi come un fiore che sboccia alla vita, accoglierne i raggi, significa farsi e divenire.

E soprattutto significa correre il rischio che quel divenire sia in pericolo, che qualcosa lo possa stroncare nel pieno della fioritura, che la sua crescita sia interrotta e che sia esposto al pericolo.

Ogni cosa che conta, quando la percepiamo tale, la sentiamo fragile, come cristallo.

E dentro quella teca di cristallo facciamo prigionieri i migliori talenti e , a volte, anche i più grandi amori non vissuti.

Come se relegarli lì, senza prendersi la briga di mettere le mani dentro e farli uscire fuori, ci desse la possibilità di farli vivere a nostro piacimento, seguendo i capricci di una fantasia despota ed esagerata; come se nessuno mai ci potesse giudicare e rimproverare quello che più temiamo: non essere stati all’altezza degli stessi e averli smarriti.

Quante teche di cristallo dovremmo rompere , invece: essere fragili vuol dire essere maledettamente vivi e soprattutto autentici.

Quando siamo fedeli a noi stessi, a quel fuoco che ci attraversa dentro, ad un amore che non ci rassicura, ma ci tiene desti, ad un’idea difficile da realizzare ma realmente nostra, quando non rubiamo i luoghi comuni pur di avere in bocca un pensiero, quando domandiamo in una folla gremita di gente che prega come a recitare filastrocche; quando tradiamo la convenienza e respiriamo il sollievo di aver manutenuto in vita un valore, avremmo realizzato noi stessi.

Siate sempre inquieti.

Rompete i cristalli, danzateci sopra, costruite la speranza anche se è una casa con fondamenta di argilla. Voi rifatela, ogni volta più robusta.

Come al mare da bambini con i castelli: nessuna onda del giorno prima ci convinceva a non rifarne il giorno dopo.

Che se ci penso mai sono stata tanto felice come quando ho fatto le cose sbagliate, quelle che sentivo, non come le ragionavo.

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