Nelle viscere di una città, nel sotterraneo dell’anima (di G.M. Sacco)

Il film 'Napoli Velata' di Ozpetek è il pretesto per Grazia Maria Sacco con cui iniziare un nuovo viaggio nell'anima. Armata di penna per descriverne, al ritorno, le sensazioni

Grazia Maria Sacco

Vivo i tramonti come le albe. Con il sorriso. Ad occhi aperti e a piedi nudi.

Non ho mai creduto ai fantasmi, neppure quando aleggiavano nei racconti dell’infanzia, shakerati fra i moniti degli adulti, che li usavano a mò di spavento, per paralizzare ogni azione “illecita” di noi bambini o testimoniati dagli occhi creduloni di qualche coetaneo, che magari voleva solo incantare la platea di turno.

Non ci credevo perché mica li avevo individuati bene poi sti fantasmi.

Nessuno, prima di Ozpetek nel suo ultimo capolavoro di “Napoli velata”, me li aveva manifestati come realmente sono: ombre insidiate dentro la nostra anima, che stanchi di essere ignorati in un gioco tacito di nascondino perenne, espandono i loro raggi fino all’inverosimile, fino a quando non si è costretti ad inciamparci, al costo di un dolore folle, di un rifiuto ostinato che si infrange testardo, facendosi in mille pezzi, come un cazzotto tirato su un vetro.

è quello che succede in questo thriller psicologico, mascherato in uno poliziesco, che stai lì, fuori dalla trappola della mente, ignorandone potenza e pericolo, per buona parte del film, a seguire le fantasie della protagonista che passa dalla passione accecante e incendiaria di una notte (quella che sogniamo quasi tutte, ad ogni età, quella cosa là insomma che accade solo nei film ahimè) ad un intrigo di pedinamenti, indagini accampate su visionarie apparizioni, tutto sviluppato su un lungo sentiero che riporta al passato e man mano che torna indietro ripristina la realtà.

Accade così che un evento inatteso, che ha a che fare con la morte, quella che Adriana, medico legale conosce e descrive ogni giorno per lavoro, svuota le tasche di un antico dolore, cucito addosso alle pieghe del dimenticatoio, quel rifugio che la memoria tesse apposta, quasi a voler distenderci sopra, come fosse un sofà appena comprato, di quelli dolci di velluto soffice, tutte le ferite, specie quelle che non hanno ragione, che appartengono alle viscere della pazzia umana o alla ferocia dell’istinto.

Quel gomitolo di lana spessa , così ordinatamente riposto su quel sofà, all’improvviso grida il desiderio di essere srotolato, di distendersi al sole questa volta, di liberare un’anima così radicata a quel racconto mendacio, a quella versione altra della realtà, da trascinarsi dietro l’odore stantio della mistificazione ad ogni passo.

Allora la vita propone un remake: Andrea/Luca, l’uomo che sconvolge l’apparente equilibrio di Adriana, fatto di una confortevole solitudine,  riporta a galla, come i residui di una spazzatura in fondo ad un mare cristallino in superficie, l’amore possessivo e tormentato che ha armato la mano mortale  di sua madre contro il padre, conducendo poi la prima alla pazzia terminata con il suicidio.

Chissà quali trame la memoria, nel suo continuo proliferare di artifici e raggiri, aveva tessuto per creare un velo sottile, ma inespugnabile sul dolore soffocante della realtà: lo stesso che copre la Napoli raffinata e anche un poco mestamente tormentata, nei suoi salotti di simboli esoterici, tesori inestimabili, meditazioni e arte  ben miscelata fra sacro e profano, lei che viene sempre rimbalzata sulle cronache più volgari e che è scenografia perfetta solo per parlare di camorra, morti ammazzati per strada, con il massimo tributo possibile, in un gesto di generosità come fosse stato elemosinato a lungo, a pizza e mandolino.

Ma Napoli è vitale, è fuoco sotto la cenere, è scoperta strato dopo strato, come ognuno di noi, che possiamo essere l’ Adriana, che si libera dei fantasmi e ritrova in un uomo stranamente coincidente con il padre, il baricentro reale della propria esistenza, sfuggita ai machiavellici inganni della mente, o l’Adriana che come la maggioranza della gente “non sopporta la verità”.

Ozpetek ce ne lascia la scelta, con un finale che si presente come uno scenario aperto, senza attori, al termine di una piece teatrale: perché Adriana sei tu, con le spalle cariche dei tuoi fardelli, che ti fermi un attimo dentro la sala del cinema, al buio, bussi alle porte delle tue allucinazioni, le  affronti come luci psichedeliche di una disco o fari di una macchina sparati in faccia, e sta a te sostenerne lo sguardo, o voltarti e procedere nel buio, apparentemente al sicuro , eppure dentro la più triste delle prigioni.

Forse nessun dolore guarisce davvero se non al prezzo di pagarne altro.

Il primo è la malattia. Il secondo la cura.

Uno dei finali possibili la verità, che l’amico  sussurra ad Adriana  fino all’ultimo fiato di vita.

Quasi ad accompagnarla , dolcemente, a disfare quel velo che, commosso come nella statua del Cristo velato, nasconde il mistero della vita.

Ps: film altamente consigliato a chi non conosce Napoli e  ha paura dei fantasmi.