di MARIA RITA SCAPPATICCI
Psicologa e blogger
Il blog Alessioporcu.it è una sfida. Per i temi che propone: leggerezza che rasenta il pettegolezzo politico, temi di una serietà estrema con cui mettere a nudo le criticità di un territorio. Con tanto di responsabilità individuali ed impronte digitali.
In questi giorni di Ferragosto nei quali sarebbe facile ottenere clic raccontando chi svaccanza dove (traduzione: chi si svacca in vacanza) queste pagine lanciano un’altra delle loro sfide: rispolverano la parola ‘coopetizione‘ (leggi qui Il coraggio di lasciare la competizione). E riescono ad aprire un dibattito: suscitando interventi autorevoli (leggi qui l’intervento del segretario generale della Cisl e leggi qui l’intervento dell’ex presidente di Legacoop ora presidente di Parsifal)
La sfida è uno stimolo eccezionali. Sfida raccolta, direttore.
C’era un tempo in cui esisteva cooperazione tra le masse. Un tempo in cui attraverso l’aiuto di tutti ogni terreno era sistemato, ogni casa apriva le porte al più debole, ogni elemento della famiglia aggiungeva il suo sapere per il benessere comune.
E l’emozione che sottendeva alle azioni quotidiane era la gioia, la festa che si creava, seppure condividendo fatiche e lavoro.
Questo è l’insegnamento di qualche generazione fa.
C’era la condivisione di strumenti rivolti a migliorare il proprio status. Con la consapevolezza che la propria idea poteva essere utile anche al vicino, il quale non avrebbe rubato il primato della genialità ma ne avrebbe beneficiato per progredire.
Non c’era un ideale politico. Non c’era sentimenti personali malevoli.
C era la voglia di progredire, stare bene, vivere decorosamente e godersi i momenti in cui tutto era stato raggiunto con ottimi risultati.
Un’idea smarrita di condivisione che ad oggi prende le sembianze di banalità, indecenza, tentativo manipolatorio e soccombenza dell’altro.
La differenza sta nell’uso pratico di due termini chiave messi in atto nell’agire.
La competizione fa parte della natura.
E gli uomini antichi sapevano che se le risorse erano limitate dovevano prevalere per assicurarsi la giusta dose del contenzioso per poter sperare di sopravvivere.
In condizioni di criticità scattava la lotta, spietata a volte, ma col solo obiettivo di garantirsi una continuità, uno spiraglio di vita.
Ad oggi è la rivalità ad aver sostituito questo modo di agire.
In questo modo non lavoriamo per noi stessi, per un obiettivo regale di salvaguardia personale.
Agiamo perché dobbiamo superare l’altro, non solo privandolo dell’oggetto del contendere, ma estirpando la sua dose di dignità e annientandolo nell’identità.
Scontrarsi, nella nostra società, non è più un atto necessario solo se le risorse scarseggiano, ma un modo per sottolineare ancora e ancora il proprio primato.
Essere rivali significa lasciarsi affogare nel mare se l’idea geniale per salvarsi è venuta all’altro.
Significa che se io non posso avere le tue qualità neanche tu deve emergere per non farmi sentire ancora più fallimentare.
Un simile modo di vivere è adottato nella società moderna in cui ognuno, vittima della propria soggettività, non accetta che l’altro sia in grado di risolvere un problema che anch’egli aveva sotto gli occhi.
E cosi il degrado.
E’ meglio non salvarsi che riuscire a gestire le risorse con le idee di qualcun altro.
Soprattutto se quel qualcun altro rappresenta il nostro ego ferito, il nostro unico scopo di sentirci abili su questa terra.
E le conseguenze?
Catastrofiche. Soprattutto quando un simili atteggiamento è insinuato nei salotti di potere, nelle istituzioni, e nelle menti di chi demanda le regole.
La foga di essere primo mette a rischio grosse società, interi popoli che lottano per salvarsi.
Lo sapevano bene gli antichi, per questo il lavoro, per quanto duro, era sempre una festa, soprattutto quando si godeva insieme dei risultati raggiunti intorno a tavolate di gente che amava ancora condividere e stare insieme.
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