Il mondo dei bimbi che pensano per immagini (di M.R. Scappaticci)

L'autismo e la difficoltà di mettere in comunicazione due mondi: quello del bimbo che ragiona per immagini e quello di tutti gli altri. Tutti vogliono le stesse cose: ognuno le chiede con i mezzi che ha.

Maria Rita Scappaticci

Psicologa e blogger

Tutte le cose le diamo per scontate. Imparare i colori, dare i nomi alle cose che usiamo tutti i giorni, riconoscere le emozioni e soprattutto sapere quando vanno usate, in quale contesto e con chi.

Eppure non lo è per tutti.

Lo conoscevano tutti quello strano bambino. Bello come il sole, dallo sguardo profondo e i lineamenti da modello.

Ma non lo riconoscevano perché era il più bello.

Lo identificavano con quei suoi comportamenti bizzarri, fuori dal comune e quel suo comportamento dirompente se gli veniva negato qualcosa di assolutamente importante per lui. E per un bambino con l’autismo tutto può essere fondamentale. Per provare a dimenarsi in questo mondo fatto del tempo che scorre, di scambi verbali, di metafore, di giochi col pallone. E non è ammesso altro.

Pensava per immagini.

Tutto doveva essere definito attraverso una foto che gli rappresentasse la scena, lo scorrere delle ore, un’espressione che gli raffigurasse il sentimento per definire una situazione.

La porta di casa, la scuola, gli amici e perfino la giusta sequenza per lavarsi le mani o farsi la doccia. I suoi compagni, i suoi parenti, la merenda, il cibo preferito, gli oggetti da portare a scuola, le montagne su nel cielo, il sole e la pioggia.

Ad ogni gesto doveva essere data prevedibilità, ad ogni situazione doveva essere annunciato l’inizio e possibilmente anche una fine. E guai ad emettere suoni troppo acuti. La sua ipersensibilità lo avrebbe mandato in tilt e avrebbe pianto tanto fino a rimanere senza forze pur di farti capire che la situazione gli aveva arrecato un grosso dolore non avendo altri mezzi per comunicarlo.

Il linguaggio non sapeva come usarlo né per esprimere i suoi bisogni né per parlare con gli altri bimbi anche solo della sua merenda preferita o del suo giochino nuovo che faceva tante luci e lo divertiva parecchio.

La gioia più grande te la mostrava non appena vedeva qualcuno che riconosceva volergli bene. Lo abbracciava e gli apriva un sorriso celestiale da rimanere estasiati e da farti piombare di nuovo nel baratro al solo pensiero che avresti voluto donargli il mondo e invece non potevi neanche assicurargli un compagno di giochi.

E non perché l’autismo fosse contagioso ma solo perché è troppo “impegnativo” anche per un adulto cercare di entrare nel suo mondo e scorgere una modalità di scambio possibile anche per lui.

E così ci si rammarica credendo che un bimbo così non possa mai essere felice, senza amici, senza tempo, senza parole.

Non si avrà mai la certezza che si stia divertendo perché una luce troppo forte in un centro commerciale o la confusione di un circo possono spaventarlo e spingerlo a correre via.

Eppure cerca le stesse cose dei bimbi normotipici.

Attenzione, affetto, golosità, divertimento, calci al pallone e soprattutto qualcuno che li capisca o almeno ci provi ad entrare in relazione con lui.

Perché in fondo tutti vogliamo le stesse cose ma le chiediamo ognuno con i mezzi che ha a disposizione.

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