Per capire i figli spesso è sufficiente parlargli…

Maria Rita Scappaticci

Psicologa e blogger

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di MARIA RITA SCAPPATICCI
Psicologa e blogger

 

 

Un adolescente qualunque o forse appena fuori dal comune. Un bellissimo ragazzo, una mente brillante, ottimi voti a scuola e una passione sfrenata per la musica con la quale riusciva ad esprimere i suoi veri sentimenti.

Era chiuso, a volte freddo, e poco sicuro.

Nonostante la sua ottima dizione tendeva a schivare il dialogo soprattutto quanto si trattava di mettere in risalto le sue caratteristiche. Oppure fantasticava e raccontava di tante sue conoscenze e di quanto fosse facile per lui raggiungere un qualche risultato ma era chiaro che non si sentiva mai all’altezza della situazione benché ne avesse, più di altri, tutti gli attributi.

E per via del suo carattere schivo o troppo da giullare di corte lo avevano classificato come cattivo, perverso e capace di mettere in piedi un gran casino solo per raggiugere i suoi scopi. Un freddo e calcolatore adolescente che in potenziale nascondeva un animo maligno.

Nessuno osava chiedergli ma tutti si chiedevano su di lui e si davano pure delle risposte sulla base di logiche montane in aria senza un minimo di fondamento. Nessuno voleva sapere di lui ma tutti parlavano delle sue cose trovando pessime giustificazioni al loro modo di stare lontani.

Eppure lui era lì con un’unica pretesa: la voglia di sentire che qualcuno aveva il desiderio di sapere cosa c era nella sua testa. E avrebbe voluto sentire che volevano sapere proprio di lui non del suo mito creato per non deludere nessuno.

No. Volevano conoscere quel tipo bizzarro con la passione per la musica e tanta sensibilità.
Non ci parlava tanto con i suoi questo bel ragazzo. Aveva capito che loro volevano un figlio che rispettasse determinate caratteristiche, che fosse come quelli che si vedono nei film o che leggi nei libri di buona educazione.

Non che lui non lo fosse ma era un adolescente e qualcosa nella sua vita doveva pur combinare per imparare a conoscere la sua identità. E così aveva finito per fingere pur di sentirsi parte di qualcosa, un pezzo di una famiglia che sognava. E si era ritagliato il suo spazietto di pochi amici che invece lo facevano sentire protetto.

Ma a lui faceva tanto male non essere accettato, non aver trovato l’appiglio che gli consentisse di non fingere più. I suoi genitori mi chiesero cosa avesse, cosa gli passava in testa, cosa non erano riusciti a capire in tutti questi anni. Volevano che gli facessi la descrizione del suo cervello di modo che avrebbero potuto sapere precisamente cosa fare con lui in ogni situazione.

Erano disperati, impauriti ed anche un po’ critici rispetto a questo ragazzotto che era diventato un grosso problema al punto che la sua presenza mandavi in ansia tutta la famiglia.

Non a tutte le mie domande seppero dare una risposta. Non sapevano chi davvero fosse il loro figlio, ragionavano per ipotesi per dare un responso e mi sembrò che fossero così lontani dalla realtà ogni volta che parlavano di lui.

Proposi di loro di chiedere direttamente a lui cosa lo turbava e di cosa avesse bisogno. Di intraprendere la strada della comunicazione, di aprire un varco relazionale che gli avvicinasse perché solo relazionandosi direttamente avrebbero potuto trovare grandi risposte.

Inorridirono alla mia richiesta. Non avevano mai neanche solo pensato di farlo e nessuno mai glielo aveva proposto.

Tutti troppo occupati a studiare i suoi movimenti di nascosto, senza dire niente e soprattutto senza di lui.

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