La cena della mitica 5^ A vent’anni dopo (Il caffè di Monia)

La mail che arriva all'improvviso. Aperta dopo una notte insonne. È l'invito alla cena della Quinta A vent'anni dopo il diploma. Andare o non andare? Perché sottoporsi al giudizio degli altri? E se...

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Il messaggio lampeggia sullo schermo del cellulare, una mail appena arrivata. No stasera no, ho appena rifatto pace con me stessa, la guarderò domani. 

Domani arriva dopo poche ore di nottataccia stretta tra la morsa del caldo ed il tarlo di quel messaggio lampeggiante, che come per una sorta di presentimento, non ho voluto aprire. Caffè, sigaretta, ancora caffè e sigaretta. Rituali brevi, che si ripetono da anni nello stesso ordine cronologico.

Mi siedo al computer, breve occhiata al mondo da Facebook. Tutto pare come al solito falsamente tranquillo. Mi decido, apro le mail. Un messaggio mi riporta a un nome archiviato nella memoria 20 anni fa. No, aspetta. Sono almeno 30. Ma sì, eravamo a scuola insieme. E che vorrà da me?

Apro il messaggio con il cuore in gola, certa che sia portatore di sventura. E invece no, è peggio di una sventura: la vecchia compagna di scuola avvisa: sono passati 30 anni dalla mitica classe 5 A, non vi sembra ora di rivedersi? No. Sinceramente no, penso. Ma il trappolone ormai è partito. Scatta la ricerca su Facebook di tutti gli ex, ci si scambiano informazioni per rintracciare quelli che sono refrattari ai social, e fanno bene, di solito sono quelli che già all’epoca risultavano i più intelligenti, e poi, una sera ti ritrovi aggiunta a una chat di WhatsApp con altri venticinque nomi, di cui almeno venti per te restano solo dei nomi e niente più. Eppure per cinque anni eravamo a scuola insieme, abbiamo condiviso professori geniali e insegnanti nevrotici, interrogazioni e compiti fiume.

Il gruppo “Cena di classe 5 A” comincia a popolarsi di persone e messaggi che sembra arrivino direttamente da un altro tempo. Proposte svariate sul ristorante dove prenotare e la contrattazione infinita sulla data del ritrovo. Mi tengo fuori, accenno solo un ciao, più per educazione che per entusiasmo. Chi ha inventato il silenziatore per gruppi merita un Nobel per la Pace.

Ma perché dovrei sottopormi allo stress di venire giudicata, soppesata per l’aspetto, per la riuscita professionale e personale, quando sarebbe così facile lasciare le cose come stanno? Se non mi riconoscono perché sono troppo ingrassata? Se potessi mandarne metà di me, sarebbe tutto più facile. E se sono l’unica a non essere ancora sposata? E cosa diranno sul fatto che sono ancora qui ad inviare curriculum che nessuno mai leggerà, anche se ormai sono sulla soglia dei 48?

Una chiamata del genere che arriva dal passato costringe sempre a compilare un bilancio della propria vita. Maledetti. C’è chi finge di non esistere, di non avere un profilo Facebook e non conoscere nemmeno l’uso e l’esistenza di WhatsApp. Avevo pensato di farlo anch’io. Ma loro, i fanatici delle riunioni, quelli da cui parte sempre la bella idea di ritrovarsi, sono come dei cani da caccia: non mollano la preda e riescono a scovarti anche sulla baita di Nonno Vitali. Meglio arrendersi da subito.

E’ il giorno. Coraggio. Arrivo in ritardo di dieci minuti e mi accorgo che tutti sono vestiti da adulti, per me è un miracolo se non porto le solite finte Nike comprate alla fiera della festa patronale. Saluti, baci e finti abbracci, sembrano tutti felici. Nessuno sembra accorgersi delle mie rughe sotto gli occhi, dei capelli “faidate” e di quegli imbarazzanti chili che mi hanno trasformata in un lottatore di Sumo. Ma io lo so che li hanno visti, e come no!

E’ il momento di sedersi. Mi avvio rapida come per prendere i posti in fondo al pullman: “Scusate, ma preferisco stare in fondo, vicino al finestrone, sapete soffro un po’ di claustrofobia”.

E’ giugno, fa caldo e siamo seduti fuori all’aperto. Touche. Ci si divide in maniera adulta e responsabile: maschi da un lato, femmine dall’altro. I miei compagni sono uguali a come erano, se non per dei piccoli dettagli. Uno tende al brizzolato, uno ha una pettinatura da impiegato del catasto, per un altro i capelli sono finiti come i giorni di scuola. Per fortuna la mia compagna di banco occupa ancora il posto accanto al mio ed è ancora splendida come una bicicletta cromata. Le altre sembrano donne perfettamente realizzate e dai modi eleganti. Che botta!

Dopo il primo brindisi, arriva quello che è sempre stato il più teatrale di tutti, il protagonista: rappresentate di classe, di istituto, guida nelle occupazioni, punk castigatore seriale di ragazze più piccole. Però, è vestito con la camicia bianca, completo scuro, la cravatta. Non so se è migliorato, di certo parla di meno, e quello basta.

I bicchieri si riempiono, le chiacchiere si sciolgono. Parte la gara. Il lavoro: nessuno è un fallito. Ottimi impieghi, ottimi stipendi. E se lo dicessi anch’io? Che mi frega? Potrei anche provare a vantarmi ma il rosso degli zigomi del make up comprato al discount e il ciondolo del drago che penzola dal mio bracciale che ho provato a spacciare per Gucci mi tradirebbero subito. Potrei dire però che a me non interessa apparire, ma quello che rivela il mio sudore è il disagio di una disadattata che non ha mai superato l’adolescenza. Taccio.

Famiglia: e qui le mie dolci compagne calano il poker. “Mio marito è petroliere, sta sempre fuori, ma noi ci amiamo anche così”. “Il mio bambino si è iscritto alla Normale di Pisa, scusate ma non trattengo l’emozione”. Ho una fervida immaginazione, qui potrei piazzare un colpo di coda ben assestato e spiazzare tutti raccontando magari del mio superattico in centro, dei miei cagnolini di razza che sono la mia famiglia pagati un casino. Ma la mia vecchia Twingo, quella che 24 anni fa mia madre aveva scartato, con i finestrini rotti e lo sportello bloccato parlerebbe per me. E poi, loro quelli del KGB seduti a quel tavolo, quelli che mi avevano scovata un mese fa, lo sanno che vivo ancora con i miei. Taccio.

Il dandy di una volta ammutolisce tutti e mostra le foto di quando ha lavorato con Obama. A quel punto, uno alla volta rilanciano e quando tocca me raccontare l’apice della mia vita, l’unica cosa che mi viene in mente è quando quella volta, in occasione della festa patronale, ho stretto la mano a Mino Reitano. Taccio.

Se toccano argomento vacanze me ne vado. Per fortuna a salvarmi arriva quella che è stata zitta fino a quel momento. Propone un ultimo brindisi e anche il conto. Dio ti benedica. Fuori dal ristorante camminando sul marciapiede, ritrovo le stesse dinamiche di 30 anni fa: i maschi si picchiano, le donne si lamentano di quanto i maschi siano immaturi.

Proposta choc: bicchiere della staffa nel vecchio pub dietro l’angolo. I temerari restano. Le mamme e i più timidi vanno a casa. Me ne vado anch’io. Con un senso di vertigine che mi rimbalza in cento direzioni. Vago come un superstite dopo l’impatto con un meteorite.

Torno a casa e penso che in fondo non sto così male: qui l’aria è buona; buoni la carne, il vino, la frutta, il pane. Il tempo è lento, i miei passaggi a livello si chiudono con largo anticipo e si riaprono con comodo, e nell’attesa non ci sono motori accesi, ma lucertole che riposano, cicale che brillano.

Punto la sveglia. E’ già mattino, corro al lavoro. Un lavoretto estivo precario, ottenuto dopo mesi di calvario e preghiere. Il mio capo è quello che frequentava il 5° B, nell’aula accanto alla mia e che i compagni di classe chiamavano “il topo”. Due volte bocciato, poi i suoi, per sfinimento, gli hanno comprato il diploma.

Arrivo con un po’ di ritardo e lui, in maniera adulta, mi dice che sono inaffidabile. Taccio.

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