Malati di green (Il caffe di Monia)

Ci con vertiamo al Green. Anzi al Veg. Meglio ancora al... Non ci accorgiamo che entriamo solo in una nuova spirale di consumi. La Terra? Si cura da sola, come ha fatto con il buco nell'ozono

Monia Lauroni

Scrivere per descrivere

Quasi quasi mollo tutto e divento green. Ho deciso: non voglio più mangiare niente che non sia biologico. Basta sprechi, addio colli di pelliccia, le mie vacanze saranno green, magari a raccogliere cataste di sterco e immondizia sui prati.

È davvero singolare come eventi apparentemente personali in corsa disordinata, ognuno per la sua strada e nel caos più totale, sembrino talvolta collassare in uno stato coordinato e perfettamente legato al contesto generale. Ma io salverò il mondo.

Primo passo appunto, l’alimentazione. Chiedo ad un’amica, una di quelle che era già Natural ancor prima di venire al mondo, dove posso soddisfare tutta la mia voglia di bio. Non le pare vero alla mia amica. Lei, che la sopravvivenza del Pianeta è diventata la sua missione, seconda solo alla sopravvivenza del suo pargolo. Lei che ordina decine di pannolini lavabili esclusivamente su siti che esibiscono il certificato di non produzione Co2. Lei, che il bucato si fa col bicarbonato e, come ammorbidente, l’aceto di vino bianco. Lei, che ci mette dieci minuti per decidere quale sale acquistare e le zucchine, quelle solo dopo aver esaminato attentamente la filiera, aver scoperto che il produttore si chiama Gigi, averlo rintracciato, chiamato personalmente per sapere che tipo di acqua ha usato per innaffiare il raccolto. No, perché Gigi sarà anche bio in tutto, ma se poi ha usato l’acqua di scolo del campo vicino, il bio va a farsi benedire. Lei che passa ore a leggere l’INCI. Lo spulcia, ingrediente per ingrediente, controllando su www.biodizionario.it se contiene componenti potenzialmente nocivi.

E gli indumenti intimi? Sembra facile trovare un marchio che certifichi che il tessuto è innocuo, i coloranti idem e che il cotone con cui sono fatti è bio! Poi c’è da fare attenzione alle farine, meglio se riesci a comprare i cereali bio e a macinarteli da te. Ma senza usare lame in metallo, che, si sa, ossidano.

Per la carne è un po’ più complicato. Lei, la mia amica, se non ha dialogato con la mucca, che le ha assicurato che ha condotto una vita felice, che è stata massaggiata e trattata come in una spa, non la compra. E la storia di Carolina, insieme a quella del suo allevatore deve essere obbligatoriamente scritta sulla carta riciclata che avvolge la carne.

Ed eccomi pronta, immersa nel pudore alimentare di un algido negozio-ristorante di una catena europea di stores biologici. Niente penombre come mi aspettavo, anzi piena illuminazione, scaffali e arredamento di design, spicchio di commercio equo-solidale, piena accettazione di carne e derivati animali, pannelli con esortazioni di rinforzo alle pareti, “Mangia con noi, salverai il Pianeta”, “Noi amiamo te, tu ami la Natura, Noi amiamo la Natura”.

Bene, mi sento soddisfatta, salverò la Natura. Tutto meraviglioso: frutta invitante, verdure col certificatino bio, tutta la salumeria senza censure dalla mortadella al crudo al profluvio di formaggi. Infilo qualcosa nel carrello, facendo finta di leggere attentamente l’etichetta. Lì dentro fanno tutti così. I più agguerriti chiedono addirittura consigli alle commesse di turno.

Sono curiosa e in piena frenesia da assaggio come una bambina alla prima comunione, decido di sostare nel ristorantino rigorosamente bio del negozio. Razioni misurate di cereali bolliti con qualche fetta di Tofu grigliato, striscioline di insalata e, per rianimare le papille, qualche schizzo di Wasabi. Non male se ti piace il polistirolo.

A equilibrare tanta poca sapidità ci pensa il conto. Eh già, il conto. Al mio occhio di madre disoccupata non è sfuggito che una spesa bio costi circa quattro volte una spesa normale. È la punitiva macrobiotica del porco bio, che non è un’offesa religiosa, ma qualche santo te lo fa tirare giù. Non mi arrendo, ce la farò.

Rientro a casa felice. Non vedo l’ora di condividere questa mia nuova life con le mie meravigliose ragazze. Ne saranno entusiaste. Le trovo felici a consumare wurstel, hamburger e raffinate merendine da discount. Poso la spesa sul tavolo e ad uno ad uno inizio a tirare fuori i prodotti salva Terra, addolcendo il colpo con una mini descrizione, esaltandone sapori e qualità. “Ma’, ma chi ti credi di essere Greta Thunberg?”.

Non demordo, devo mostrarmi convinta. Per mostrarmi ancora più determinata decido che anche la nostra casa dovrà subire trasformazioni. Dovrà diventare una casa sostenibile. Chiamo un mio amico architetto per avere qualche consiglio ed un preventivo. Inizia la lista delle modifiche. Nessun allacciamento alla rete del gas, un sistema di riscaldamento quasi pionieristico attraverso una pompa di calore sistemata in terrazzo, sul tetto i pannelli fotovoltaici e una enorme cisterna nascosta che servirà per raccogliere l’acqua piovana. Da qui, attraverso una serie di tubi, questa finirà nel wc e nella lavatrice. Perché sprecare l’acqua potabile anche in bagno? E certo, che stupida!. In cucina piastre a induzione che si spengono automaticamente quando la pentola non è poggiata sopra e tutta la casa verrà riscaldata attraverso un impianto a pavimento che manterrà la temperatura ideale senza creare dispersioni. E ovviamente automobile a gas.

Passiamo al preventivo. Ok, se la casa la vendo sarà ancora più sostenibile. Mi quasi convinco che essere green è una cosa da ricchi, ma ecco che arriva l’idea. Quella buona. Qualcuno un giorno mi aveva detto che le mie erano mani rubate all’agricoltura. E’ ora di verificare se queste carissime personcine hanno ragione. Qualche tempo fa avevo sentito parlare di orti urbani. La cosa dovrebbe funzionare così. In pratica pagando al tuo comune un modico canone di affitto, ti viene assegnato un piccolo appezzamento di terreno che tu puoi coltivare a tuo piacimento e ricavarne verdura biologica a Km 0. Fantastico! Coltivare l’orto è una cosa cazzutissima, fa bene al corpo e alla mente e non è affatto da radical chic.

Tra lo scetticismo fastidioso delle mie ragazze e le battute ironiche dell’impiegato del Municipio che mi ha consegnato insieme chiavi e modulo di disdetta, inizio questa nuova avventura. Gasatissima vado a dare la prima occhiata al mio orto. Una giungla. Sterpame alto come palme, erbacce sparse. Cartacce e una scarpa vecchia nascosta tra il fogliame per niente bio. Ma che importa, lo ripulirò. Le imprese facili non danno mai grandi soddisfazioni.

Spendo un patrimonio in attrezzi e tra gli sguardi incuriositi dei miei vicini, tutti ultrasettantenni, inizio le operazioni di pulitura. Quando torno a casa, ecco apparire i primi calli alle mani. Feroci dolori alla schiena ed emicrania da suicidio dovuta forse al calore. Passerà. Caricata a mille come un’invasata Inizio la spasmodica ricerca di tutorial e consigli pratici di come arare un terreno a come piantare una carota. Stagionalità delle verdure, semina e trapianti, fasi lunari e temperature. Ma che davvero? La fisica a scuola era più semplice.

I giorni passano. E anche le serate a fare il check di precipitazioni, orari di alba e tramonto, controllo degli insetti e delle erbacce. Ed eccolo là, il primo ceppo di insalata. Lo raccolgo con cura, lo guardo come si guarda un figlio. È nato. Dopo tanto sudore e fatica e soldi, tanti, finalmente mangerò qualcosa di veramente bio. E mio. Tutti a tavola. Una foglia a testa perchè la pianta è piccola. Le mie ragazze mi guardano preoccupate. Non capiscono, è inutile. Ma chissenefrega! Io sono soddisfatta lo stesso. Sto salvando il Pianeta.

Mia figlia mi chiede qualche spiccio, Deve uscire. Apro il portafoglio ed è vuoto. Ho speso tutto in macchinari, concimi, quelli bio essiccati al sole incontaminato di Khao Lak, saponi bio, riso bio, scarpe ecosostenibili, cosmetici naturali, buste biodegradabili, piatti e bicchieri plastica free.

Sapete perchè non si parla più del buco dell’ozono? Perchè si è richiuso. Da solo. La terra ha i suoi cicli, si surriscalda, si raffredda, si autocura. Se potesse farebbe beatamente a meno di noi ritrovando sempre i suoi equilibri. Noi no.

Mi siedo in terrazza tra i gerani. Mi piacciono le estati che si susseguono con la caparbietà cieca degli ottusi, l’erba che si tesse di minuscole particelle di rugiada, le mattine che hanno il colore luminoso del ferro rovente, le domeniche pomeriggio nell’ombra delle stanze silenziose, i cieli cupi e scuri che annunciano pioggia e i lampi che si disegnano all’orizzonte che raccontano di tempeste lontane e vite dissolte nella furia del vento. Non c’è equilibrio. Solo casualità e osservazione.

Oltre noi, oltre le nostre volontà. Su, in cielo, cento milioni di stelle.