La tragedia dei bambini uccisi dopo il parto: due casi in poche opre. Quando il mostro è dentro chi dovrebbe raccontarti le favole
È vero che è labile il confine tra sanità e follia. Me lo dico tutte le mattina quando leggo i giornali e rabbrividisco pensando a quanto idiota sia questo nostro piccolo mondo in disarmo. Quanto è grave il solco che segna la distanza tra noi e lo squilibrio. Tra noi e la realtà. E scopro che c’è un luogo indicibile dove “il mostro” non è nelle favole dei bambini. Leggo “Merano – Neonato senza vita trovato da alcuni turisti sotto un cespuglio: sarebbe stato strangolato“. Una tragedia che avviene a un giorno da quella di Benevento, dove un neonato di 4 mesi è stato trovato morto dai vigili del fuoco e dai carabinieri in una scarpata lungo la Statale Telesina, all’altezza di Solopaca, nei pressi di un distributore di benzina.
L’uomo nero non è più uomo, ma si nasconde dentro chi avrebbe dovuto raccontare loro una fiaba, insegnargli ad allacciare le scarpe, andare in bici e rimboccargli le coperte. Che sia un forma eccessiva di amore, amarli fino a trascinarli via da questo mondo.
Guardandola, lei, il mostro, mi accorgo che il suo viso somiglia a molti altri visti in giro, spesso alle forme che hanno le nuvole e le pietre. Avrei potuto essere io. Tremo. Oppure mia madre.
Non comprendo, non accuso, non giustifico. Mi chiedo solo quante mamme oggi mettono al mondo un figlio perché ne hanno davvero voglia. E quante invece lo fanno perché schiacciate da un’assillante condizionamento sociale. Siamo alle soglie del 2020 e ancora chi non è madre è considerata un refuso della specie e un esito indegno dell’evoluzione.
Gran parte dei genitori è assolutamente impreparata a costruire un essere umano, che è cosa ben diversa dal mettere al mondo un figlio. Adolescenti come zattere tarlate che diventeranno padri assenti o madri dalle predilezioni effimere. Gente sola che si accoppia troppo presto, o tardi, per il terrore della solitudine o degli anni che passano che faranno figli per caso, per dovere o per darsi un motivo.
Ma qualcuno glielo ha spiegato a questi qua che un figlio, poco dopo la nascita, diventa impegnativo, faticoso, arrogante, noioso? Che una madre soffoca ogni giorno nelle zone a traffico illimitato delle mille cose da fare? Che il corpo cambia, che la percezione di sè cambia, che la vita cambia.
Tutti a rassicurare che tutto andrà bene, che è la cosa più naturale del mondo e che se pure con lui dovesse andare male, i figli restano alla madre e che sarà un’esperienza meravigliosa. Quegli “angeli che hanno cambiato la nostra vita” diventeranno ben presto un pericolo da scampare.
Coi capelli scomposti dalla bufera si chiuderanno in bagno, stordite come un uccello che sbatte contro i vetri chiusi. Riusciranno a scampare una mezz’ora sedute sul water, chiuse a chiave fingendo un mal di pancia, per leggere Cosmoplitan. Il loro “angelo” di là che piange sempre, senza motivo, non meno di trenta volte al giorno.
Si fanno figli per continuare dopo la morte. Per essere accuditi da vecchi, per avere qualcuno che piange la tua assenza. E sicuramente sarà così, ma dura poco. Già dopo un breve tempo si avrà un ricordo vago. Un po’ come i funerali: a piangere il defunto sono le prime due file. Alla terza la vita ha già preso altre strade.
Essere madre è abnegazione, è un continuo lungo turno di guardia. E’ non avere tempo per la depressione, è accettare di aver generato qualcosa che è più bianco di te, che ha tutto il tempo che tu invece non hai più.
È non vedere altro che i suoi occhi color del cielo che precede la pioggia, i suoi capelli che sono grano scuro percorso dal vento. E tanto deve bastare.
Quel corpicino che profuma di miele, non ancora sconvolto da quella passeggiata buia e ansimante verso un mare lontanissimo. In questa favola le matrigne non parlano con gli specchi. E di resuscitare, di vita o di morte è consentito soltanto a Dio.