Un caffè tutto italiano. Anzi: 'in italiano'. Perché l'invadenza delle parole straniere sta cambiando il nostro modo di parlare.
Articolata, complessa e ricca di mille sfumature. Musica sublime, colore e sensualità. L’italiano ha una cultura letteraria secolare ed è una delle lingue più affascinanti del mondo. Per gli altri, ma non per noi. Tredici anni di scuola, senza contare l’università, e poi: “Sorry baby, puoi rischedulare alle 12 la call delle 11, che a quell’ora mi hanno fissato un meeting interno sul debrief?” Eh?
No, non è uno stralcio di conversazione preso dal copione di “Inception”, e cosa cosa ancor più sorprendente, non è stata seguita dall’omicidio del soggetto che quella frase l’ha proferita, né da tentativi di suicidio da parte della lingua italiana.
Buona parte dei nostri connazionali, così all’inglese, ormai ci parla davvero. Siamo diventati tutti dipendenti dalla lingua d’Albione, dopo anni di strenua difesa in cui abbiamo risposto a “sandwich” con “tramezzino”.
Si può accettare che “programmare” venga sostituito con “schedulare”, anche perché schedule, diciamolo pure, è una delle parole più brutte dal punto di vista fonetico. E si può storcere appena la bocca se la Treccani ha aggiunto “googlare” ai neologismi della lingua italiana.
Ma non riesco davvero a trovare la pace con me stessa quando sento utilizzare termini inglesi, spesso a sproposito, che potrebbero essere tranquillamente tradotti in italiano, ma che ormai sono entrati di diritto nell’idioma italico, con (non) buona pace dei vari Dante, Petrarca e di tutti coloro che difendono ed hanno difeso retoricamente la nostra lingua. Salvo poi cadere in refusi imbarazzanti.
Maledetta fu l’importazione dello “yuppie” come modello di vita per gli uomini d’affari anni ‘80. A questo proposito, scopro con colpevole ritardo che “yuppie”, oltre ad un film cult della commedia italiana anni ’80, è la forma breve per “Young Urban Professional”, che sta a indicare un giovane professionista rampante. Insomma, bastava leggere di più Calvino.
Per farla breve, con la scusa del marketing, anche il panettiere sotto casa ormai va forte per il suo Special Bundle, tradotto: sfilatino + porchetta. Tutti avvezzi alla lingua di Oxford.
Benchmark, conference call, endorsement, insight, meeting, timing, touchpoint, bonus track, debriefing. Nell’ordine: confronto; una “pacchianissima” chiamata di gruppo; sostenere; dati e fatti che trasmettono determinate evidenze di comportamento; una “diplomatica” riunione; durata o calendario; uno “sciovinista” punto di contatto e infine fare il punto della situazione. Facile no?
Ma c’è qualcosa che va oltre, che altera irreversibilmente la mia nevrosi: la segretissima “ghost track”, quella traccia “secret” , quel contenuto di un album discografico la cui esistenza non viene indicata nella lista delle tracce sulla copertina e dovrebbe essere una sorta di sorpresa del gruppo o dell’artista in questione. Che so, Albano o Ligabue. Che sorpresa ci può essere? Un terzo accordo?. Ma siamo seri!
Mettiamo da parte questo continuo linguaggio da finti operatori di marketing, che qui è diventato tutto un fastidioso buzz. Ops, pardon, volevo dire brusio.