La parabola del cieco, guarito da Gesù, può regalare spunti di riflessione importanti in una settimana sporcata da arresti, intercettazioni e fiumi di denaro sporco
Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
(Mc 10, 51-52)
Leggo di Bartimeo, il cieco guarito da Gesù, mentre la città dove vivo, Ceccano, è sconvolta dagli arresti di amministratori e funzionari comunali di livello dirigenziale, accusati di associazione a delinquere per lucrare sui fondi destinati alla città. Secondo le procure di Roma e di Napoli, e il giudice delle indagini preliminari di Frosinone, un ulteriore episodio in cui l’interesse privato, il far soldi, tanti soldi, viene messo ben prima dell’interesse di quella città cui i fondi erano destinati per la ripresa, dopo la pandemia. (Leggi qui: Giani ed Ippogrifi: cosa c’è tra le righe del terremoto giudiziario a Ceccano).
Accuse gravissime, che naturalmente debbono passare il vaglio dei diversi gradi di giudizio, per cui vale sempre, per tutti, la presunzione di innocenza fino alla sentenza finale; accuse ed intercettazioni che descrivono però un mondo di ciechi guidati da altri ciechi. E’ come se persone che hanno sempre vissuto come tutti gli altri improvvisamente rimangano abbagliati dal luccicare dei soldi, tanti soldi, e non capiscano più niente, accecati appunto.
Oltre l’arte il significato del quadro di Brueghel
C’è un quadro di Pieter Brueghel il vecchio, intitolato la Parabola dei ciechi, un dipinto del 1568, oggi al Museo di Capodimonte a Napoli, in cui un cieco guida altri ciechi, destinati tutti a cadere nel precipizio. E’ come se ciascuno di quei poveracci fosse ormai all’interno di un meccanismo, di una qualità di vita, da cui non si può uscire e quindi anche se volessero, sembrano non avere la forza di potersi sganciare, di poter finalmente ammettere di aver sbagliato e cercare di cambiare vita.
Si tratta di una cosa difficile da fare, chiunque ha sperimentato nella propria esistenza quanto sia complicato provare a liberarsi di un vizio, di un difetto. Può succedere addirittura che ci crogioliamo nel male, impariamo a conviverci, diventa un habitus della nostra vita, un’abitudine appunto.
“Rabbunì, che io veda di nuovo”
Bartimeo invece ha il coraggio di provarci: sente che sta passando Gesù e chiede aiuto, urla, non rimane fermo nella sua malattia, cerca di liberarsene. E quando Gesù, che ha sentito la sue grida, lo fa chiamare, Bartimeo fa un gesto: getta via il mantello, quell’indumento che fino allora era stato il luogo della convivenza con il male, cerca di liberarsene, dichiara di volersene disfare: Rabbunì, che io veda di nuovo! urla e Gesù ne accoglie il grido, la voglia di diventare un altro, di cambiare, di uscire dalla comodità apparente ma accecante e umiliante del male.
La lettura di alcuni stralci delle intercettazioni nella vicenda di Ceccano non fa emergere persone felici, tranquille, soddisfatte del proprio lavoro ma personalità rancorose, impegnate in continui litigi, dimentiche della dignità del loro ruolo e del rispetto dovuto al loro stato.
La lezione di Dostoevski in “Delitto e Castigo”
Ci vorrebbe un atto di coraggio, lo slancio di Bartimeo per uscire dal mantello soffocante del male: in “Delitto e Castigo”, di Fedor Dostoevskij, Raskolnikov, che ha ucciso due donne, per liberare il mondo da una aguzzina spietata, recupererà la sua dignità soltanto dopo aver trovato il coraggio di ammettere le sue responsabilità: gettar via il mantello, alzarsi in piedi, e così recuperare la vista vera, quella capace di distinguere il bene dal male.