
Due modi per capire un gigante del giornalismo: inseguirlo nei percorsi della storia che visse o amarlo per come li descrisse percorrendoli
I comuni denominatori non ti danno requie perché nella cultura moderna sono considerati elementi massificanti e poco specialistici. Già quell’accezione, “comune”, sembra gettare le basi per far ammalare ancor più la presunzione di quest’oggi mediamente cretino. Quella per cui solo e soltanto il sapere specialistico ha dignità di sapere alto, mentre quello generalista e che coltiva il sogno della divulgazione diventa come la sbobba dei marinai: nutre ma non eccita il palato. Chiedere conferma a chi oggi cerca lavoro o vive di identitarismo politico, please.
Solo pochi giorni fa, a Veroli, un ispirato Massimo Cacciari ne aveva parlato mettendo perfino le briglie alla sua proverbiale grevità sintattica quando lo si chiama a fare il filosofo in purezza. Durante l’ultima serata del Festival della Filosofia l’ex sindaco di Venezia aveva parlato di “metafisica concreta”.
Quel che ha detto Cacciari a Veroli

Cioè dell’incapacità, per lo più ignorata dai contemporanei, di concepire sistemi ed elementi comuni dell’essere che facciano argine alla specializzazione presuntuosa e pretestuosa. Che vuol dire? In pratica che un neurochirurgo skillato che non abbia una visione generale della salute come missione è lente per un solo scenario, ma non è binocolo da orizzonte.
Ecco, parlare di Indro Montanelli senza tener conto della chiave universale di quel che ha fatto, impelosendosi solo sulle prospettive che la Storia offre della sua opera, è da fessi. Ed è ingiusto. Lo è perché parliamo di un gigante viandante, cioè di una personalità immensa che però ha attraversato tanta e tale di quella storia che alla fine ha incontrato ed incarnato tutte le sue contraddizioni. Ossimori etici, politici, personali e di sistema. E qui scatta il guaio grosso. E’ pronta l’Italia di oggi a concepire la grandezza di Montanelli, morto 23 anni esatti fa, senza cadere nei trappoloni dell’agiografia di maniera o nel revisionismo di bandiera?
Il cammino senza contare i passi

Siamo pronti a leggere il cammino di quel gigante considerando solo il fatto che i suoi furono passi spediti verso la tonda bellezza? E senza che gli inciampi facciano curriculum per dequalificarlo o senza che le iperboli facciano fede per la santità a prescindere? Indro Montanelli partì già malissimo, in quanto a binario di banalità, e si distinse già per quel nome così strano, riecheggiante una divinità indù.
Vulgata vuole che suo padre fosse residente a Fucecchio di giù e sua madre a Fucecchio di su. Roba che, in una terra che ha inventato Guelfi e Ghibellini e che ha dato di battesimo al concetto di polarizzazione feroce, segnava la vita più che l’aneddotica spicciola.
Indro venne chiamato così perché nessuno dei due genitori potesse rivendicare le origini “insuesi” o “ingiuesi”. Nacque apolide, Montanelli, e lo restò per tutto il resto della sua vita anche in senso etico. Lo restò nel senso che non andò mai per sempre a favore o contro qualcuno, ma si concesse il lusso di cambiare idea solo quando la crasi fra Storia e sua maturazione interiore gli suggeriva che era ora di cambiarla. Sì, Montanelli cambiava idea e non visse mai di certezze, pensa un po’.
L’apolide e l’opportunismo “alto”

Opportunismo? Sì, se a metterlo in pratica è un laqualunque che deve solo vergare una X su una scheda elettorale a seconda del senatore di cui vellica il retrotreno. Cento volte no, se lo mette in pratica un uomo che della Storia registra gli umori, un giornalista di quella fatta. Si spiegano così, in sottile decantazione delle lenti becere a cui questo tempo ci ha abituati, le mille contraddizioni di un personaggio a cui Benito Mussolini disse dopo un pezzo giovanile su L’Universale: “Avete fatto benissimo a scrivere quell’articolo, il razzismo è roba da biondi”.
Nel 1932 essere razzisti per noi italiani già (quasi tutti entusiasticamente) fascisti era ancora (purtroppo non per molto) carabattola da tedeschi, da cugini scemi. E si spiega così il fatto che tuttavia, nel pieno della guerra d’Etiopia, lo stesso Montanelli canonizzò un “razzismo africano” che invece a suo parere aveva ragion d’essere. Tanta di quella ragione che al fronte si prese una moglie ragazzina da uno sciumbasci locale, gettando le basi per diventare icona postuma e buia del repellente mandamato.
Il razzista redento

Si spiega in questo modo il fatto che la guerra Russo-Finnica del 1939/’40 lui la forgiò in un reportage capolavoro che elogiava i sissit, i fanti bianchi di Mennerheim, come dei moderni Davide contro il Golia sovietico. Ed il fatto che pochi anni dopo il Miniculpop lo radiò dall’Albo dei Giornalisti. Perché? Perché Montanelli, il fascista Montanelli, nella guerra civile di Spagna simpatizzava per i repubblicani e della battaglia di Santander diede un resoconto poco amico della mistica bellicista di Franco e dei suoi sodali Hitler e Mussolini.
E poi la prigionia del 1944 dopo l’adesione convinta al gruppo clandestino di Giustizia e Libertà. Le epurazioni repubblicane dal Corriere della Sera ad opera di “Fortebraccio” Mario Melloni per coloro che erano stati vicini al fascismo? Un’altra prova di una Storia che piegava quel cronista secco, grifagno di naso ed allampanato come una cicogna alle conseguenze delle sue azioni. Ma che non riuscì a spezzare quella straordinaria verve descrittiva ed analitica. Come quando un binocolo è ottimo in ottica lenti a prescindere da dove lo punta un guardone.
“Caro Berlusconi, io non ho padroni”

Non ci riuscì neanche Silvio Berlusconi, a tarpare le remiganti della cicogna. Di quel matto con la Lettera 22 che dell’omicidio del commissario Calabresi scrisse che era figlio di una campagna diffamatoria sinistrorsa. E che della questione arabo palestinese scrisse: “Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta“.
Che si prese sui trampoli secchi il piombo delle Brigate Rosse. E che al Giornale applicò il modello del giornalismo Usa per cui ogni articolo dovesse essere comprensibile anche da un “lattaio dell’Ohio”. Che diede a Camilla Cederna della “radical chic” e che disse di no a Mike Bongiorno per una rubrica televisiva. Al Cav, neo capoccia-cumenda de Il Giornale, Montanelli latrò sotto il grugno cose che oggi dovrebbero far arrossire molti di noi ed inorgoglire qualcuno. “Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore. Io veramente la vocazione del servitore non ce l’ho”.
La strada sbagliata per capirlo

Capito il senso del personaggio? Il senso è che questa enunciata finora è esattamente la strada sbagliata. Quella cioè di seguire un gigante passo dopo passo e concentrarsi sulle sue scarpe, senza vedere le altezze immense che la testa e gli occhi raggiungevano e scrutavano ogni volta che quelle scarpe conducevano ad un nuovo paesaggio, valligiano o alpestre che fosse. Perché l’errore di ricordare Indro Montanelli per quel che visse e come lo visse sta esattamente in questa somma distrazione.
Quella che ci fa dimenticare quanto spaventosamente bravo e sincero fosse a descrivere, sminuzzare, far comprendere a tutti dove andava lui e dove stessimo andando noi. Come un comune denominatore che non ha bisogno di bandiere, padroni o servaggi ideologici. Come uno che capì gli italiani come popolo prima ancora di provare a capire l’Italia come Paese.
E che scrisse che “nei letti delle nostre nonne, a parte gli eschimesi e gli zulù, ci son passati tutti, quindi direi che parlare di italianità è vagamente ridicolo”. Come uno che semplicemente ci manca. Anche e soprattutto oggi che si deve scegliere tra schiena dritta e pane in tavola.