Vittorio Miele il poeta del silenzio (Culture)

di FAUSTA DUMANO
Scrittrice e insegnante
detta ‘Insognata’

 

 

Grande attesa alla Villa Comunale di Frosinone per la mostra del grande artista Vittorio Miele. Il battesimo è il primo settembre alle ore 18 nella rassegna di arte visiva moderna e contemporanea di Alfio Borghese.

Corpi e volti: in ogni occasione il figlio Rocco Zani, il critico d’arte che ama definirsi cronista dell’arte riesce a stupirti. (Leggi qui ‘Rocco Zani, il cronista dell’Arte’). Sembra che scovi nell’immensa produzione del padre, sempre qualcosa di mai esposto.

Abbronzato, appare alla villa comunale per allestire la mostra, disponendo le tele come fosse la sequenza di un lungo racconto. Una storia narrata da volti e corpi.

Con lui due donne, la sorella Paola e la critica d’arte Cinzia Mastroianni. Dal quartiere generale di via Casilina Sud, da quella palazzina che dovrebbe essere patrimonio dell’umanità, sono arrivate le tele.

Su Vittorio Miele sono stati scritti fiumi di inchiostro. Noi abbiamo pensato di regalare ai lettori uno scritto di Duccio Trombadori, introvabile in rete, pubblicato in un catalogo ormai altrettanto introvabile: Il Poeta del Silenzio.

Mai definizione fu più giusta per definire Vittorio Miele.

Curato ogni dettaglio,lo stesso quaderno delle firme è un’opera d’arte, realizzato con i fogli di carta che usava il Miele. A crearlo è stata Cinzia Mastroianni.

 

 

IL POETA DEL SILENZIO
di Duccio Trombadori

C’è un quadro di medie dimensioni, dipinto da Vittorio Miele quasi trenta anni fa, che si intitola “Terra avara” e che tanto più attira l’attenzione per la sua compiuta espressività perché costituisce l’involontario emblema di uno stile e di tutta una poetica.

 

Si tratta di una pittura composta per sovrapposizione di piani e modulata sui toni del rosso con la presenza di una fitta rete di segni pungenti lo spazio come secchi arboscelli in prospettiva per una rampa collinare al fondo della quale sta una casa rossa tagliata di profilo con accenni esemplari : un po’ sbilenca, con il lungo aggetto di un tetto che si abbassa fin quasi ad altezza d’uomo, ed allude bene alle poche zone d’ombra protettive di un focolare dimess , con l’aia, l’orto sul limitare e lo scorcio di un viottolo disegnato dal folto della macchia rada, forse per troppo sole o per poca acqua .

Le varianti di tono del colore rosso conducono lo sguardo per tutta la composizione sovrapponendo piani e dilatando distanze , in una definizione del dipinto che risulta messo a fuoco da una sorta di teleobbiettivo così che la veduta delle lontananze appare ravvicinata e mostra il lato irreale di un ambiente familiare, rivissuto come in una fiaba, o pure in un sogno.

La terra avara è dunque vermiglia così come l’ha immaginata il pittore quasi per eccesso di fiducia – ma non troppo, a ben vedere- nel potere narrativo del puro colore. Ecco una dote distintiva della maniera di vedere di Vittorio Miele, pittore dai sentimenti delicati, ma non meno intensi, che ci sorprende e ci intrattiene con le sue figure e i suoi paesaggi nello spazio fantasioso di un lungo intermezzo lirico compreso tra la personale esperienza vissuta e un nobile linguaggio visivo che sa parlare poeticamente “a bassa voce” consolidando impressioni fugaci in valore formale.

Nei paesaggi dai nomi poco usati, prescelti non casualmente come movente d’ispirazione, vive il sottofondo di una poetica novecentesca molto italiana, secondo una inclinazione espressiva che ci ha regalato preziose gemme di pittura lungo tutto il corso del secolo appena trascorso: penso al chiarismo di certi lombardi come Usellini e Tosi, alle vivide marine liguri di Rubaldo Merello, alle pulite mattine di un Appennino soleggiato negli abbozzi impecccabili di Giorgio Morandi, ai resedi rurali foschi e abbaglianti di Ottone Rosai, alle variopinte cascine e ai profili gibbosi delle Alpi Apuane levigati o modellati da Soffici e Carrà, a certe loro desolate e luminescenti marine piene di vento che hanno fissato con grazia e dignità la forma e i chiarori della Versilia.

Si deve alla intelligenza formale ed espressiva di questi artisti, tra gli altri, il lascito privilegiato di una moderna “misura italiana”, discreta ed elegante, formulata nel secolo delle intemperanze e delle retoriche futuriste o comunque noncuranti di una poesia delle piccole cose, delle montaliane “occasioni”, come anche degli essiccati “ossi di seppia”, anonimi ed ermetici segnali in cui si rapprende la melodìa del mondo.

Questa scoperta dei valori locali, della intimità poetica dei luoghi e dei sentimenti comuni, ci ha dato tesori di stile ed uno straordinario patrimonio visivo che supera il tempo e le circostanze in cui venne concepito: come se dalla patria delle cento città e delle cento campagne, di cui l’Italia si compone, giungesse al mondo un messaggio di gentile compostezza e di classicità recuperata fin dentro i più agitati mondi della passione.

Il percorso artistico di Vittorio Miele è maturato in questo clima ed è visibilmente segnato da una analoga esperienza poetica , che attraversa il suo modo di vedere invitandolo a comporre immagini come un lessico familiare gravido di cultura visiva e al tempo stesso straordinariamente innestato su una radice di canto popolare , di parlata materna.

La pittura di questo artista nasce dall’impulso sentimentale e si riassume in una nota di forma e colore che nella sua semplicità genera effetti di vibrazione profonda. Infatti la leggerezza del racconto visivo è per Miele un modo gradevole per trasferire nell’occhio interiore degli osservatori il carico della sua emotività: quella proveniente dalla capacità di sintetizzare per tratti elementari la densa complessità dell’essere, senza nessuna indulgenza per la decorazione pura, traducendone l’ossatura per via di linee e colori.

Vittorio Miele è un artista apparentemente facile , e questo è forse il suo pregio più fine. Segni elementari tracciano il profilo di una montagna sorvolata da nuvole più grandi di lei, come disegnate da un ragazzino; così come pochi tratti sono sufficienti ad indicare morfologìa e disposizione d’animo di un volto che prende l’atteggiamento di una maschera animata, donne schermate e incise come tanti Pierrot lunari, attoniti Arlecchini senza padrone né Colombina, il Carabiniere-maschera da teatro di strada, appena uscito da un bisticcio con Pulcinella….

E’ tutto un trionfo di maschere, la vita, sembra dire il pittore, che non si compiace di angoscie ossessive, ma stempera il male di vivere nel velo di una composta malinconìa dai toni vagamente crepuscolari in cui la passione trova un punto d’approdo in un accordo di umana compassione.

Sentimenti diretti, semplici, ma non elementari,Vittorio Miele armonizza sulla tela con pochi tratti e ampie zone di colore gettato con apparente casualità e la sua vena poetica non rifugge dagli “strumenti umani” né cerca l’isolamento della pura soddisfazione estetica. Il pittore ama raccontare la sua pena e le sue gioie e ancora di più gli preme stabilire una comunicazione con gli altri , facendosi piccino e forse anche “fanciullino”, rammentando il modo di figurare in versi che aveva Giovanni Pascoli e cercando di esporre il proprio canto visivo come all’angolo di una strada, sui bordi di una piccola piazza di paese, alternando le immagini ai versi, e forse al canto di una antica nenia.

Dialogo e intimità con il prossimo sono mète preziose da raggiungere in questa pittura che per essere storia di un’anima intende soprattutto diventare sentimento diffuso e condiviso . Il temperamento schietto e antico del pittore segna il carattere “popolare” della sua opera , non però nel senso di una melopèa corale , tantomeno collettiva , e neppure nel senso di una descrittiva di costume.

Ciò che distingue l’attitudine poetica di Miele è piuttosto la volontà di rendere pienamente conto della liricità implicita nella vita della gente comune , nel volto di una fanciulla , di una madre , di giovani bagnanti; oppure nell’accendere di riflessi inattesi le ore abituali di un ambiente tutt’altro che aulico, un casolare , un piccolo vaso di fiori, lo scorcio di un oliveto o di un campo di granaglie.

Si riconosce in lui la lirica dei pittori antiretorici ,”non laureati” , e perciò gravidi di una sincera forza espressiva maturata nel clima di rimeditazione italiana sulle glorie della pittura francese , dal postcezannismo costruttivo di Derain al colorismo sciolto ed elegante di Matisse.

Vi è però un tratto di religiosità naturale in questa disposizione d’animo che va colto e che si appaia a quello di altri pittori italliani dalla figurazione sapiente e al tempo stesso “primitiva” : penso al pennello incantato di quell’ “angelo in borghese” che fu Tullio Garbari, ma per altri versi l’arte di Miele si raccorda al mestiere di un silente sognatore come l’artista triestino Vittorio Bolaffio, che ritrasse Umberto Saba in mezzo al cielo azzurro di Trieste segnato dal volo dei gabbiani.

Il tono religioso che assume di necessità la cognizione del dolore tocca alle volte l’elemento gridato , come accade di vedere in certi volti oppure in certe scene sacre e di passione che ricordano le visioni di Rouault , per il piacere di una rappresentazione da “calvario bretone” con i suoi modi figurali contadini o “primitivi” .

Questo stile così nitidamente espresso sorge spontaneo nei quadri di Vittorio Miele quando egli traccia il volto della povera gente e rivolge lo sguardo nei solchi della memoria , personale e collettiva , del suo paese di Ciociaria. Circola in tutta la produzione visiva di Miele un’aria di stornello , quasi il piglio di una improvvisazione “alla poeta” , escogitata per una occasione di festa primaverile o patronale, per il vezzo di un “parlare materno”, un tono dialettale che è il frutto di una attenta meditazione sui valori di una forma semplice e per questo portatrice di autentica espressione.

Guardo per un attimo il suo autoritratto , realizzato nel 1977 , e ci ritrovo lo sguardo timido e violento del caro Ottone Rosai , quell’emergere del pianto dai bulbi oculari fin troppo carichi di esperienza, illuminato da un bagliore di luce improvvisa ma non innaturale , come in un temporale notturno ( “..sorgerà un artista come una brutta giornata…” aveva scritto di sé il cantore degli omìni toscani raccolti in solitudine nelle osterie di campagna , perse tra i boschi della Val di Pesa o di Scandicci) .

L’amore strapaesano è un elemento basilare del sentimento espressivo anche per Vittorio Miele, che però leviga tutte le asprezze dell’ umore malinconico in una luce più umana e ricca di speranze: è il vivere religiosamente, che lo conduce oltre la piaga del tempo, ad una più serena conciliazione con le cose viste, facendole lievitare in una più generale atmosfera di fiaba e di lungo racconto per immagini in cui si compendia il segreto della vita, e anche della sua arte.

Escono per questo dal suo pennello stati d’animo di permanente innamoramento dei viaggi, dei luoghi e delle persone raffigurate ( i paesaggi jugoslavi, le estati in Ciociaria, le vivide immagini d’America, le nevicate campestri, le marine, o le signore col cappello giallo, le “dolci primavere” di fiori e di ragazze, i gabbiani sul mare ) che non permettono all’artista di isolare il dolore – come avviene per esempio in Rosai – come irredimibile e oscuro destino della condizione umana . Passato attraverso le brutali vicende di una terra sconvolta da guerra e miserie -così bene rammemorata dal pittore nella tragedia di Cassino, in una magistrale e non dimenticata “testimonianza” poetica e visiva di appena un decennio fa- Vittorio Miele ha fatto prevalere nella sua visione, limpido specchio di un modo di sentire, l’elemento della speranza, anzi il valore di quella paolina “spes contra spem” che resta il principale contrassegno di una vita dotata di autentica religiosità .

Questo bagaglio morale non è irrilevante per la elaborazione dello stile, né tantomeno ad esso si sovrappone . La virtù lirica del pittore consiste proprio nella capacità che egli dimostra nel trasferire sapientemente il dettato morale nel manufatto artistico.

E si apprezza per questo ancora di più la sua semplicità e il tono sciolto di racconto, dalla sintesi formale quasi “ingenua”, il ripiegamento dello sguardo su fugaci stati d’animo o su panoramiche còlte quasi sbadatamente e pure così dense di qualità espressiva ed allusiva . Pittore completo, cantastorie “a bassa voce” della commedia umana attraverso i passaggi della esistenza e della vita quotidiana, Vittorio Miele lascia una densa eredità poetica che si riassume in uno stile conseguente e sicuro : e corrisponde alla maniera di vedere di chi cerca una segreta consolazione nella pittura e la raggiunge a pieno quando stende sulle sue immagini quel velo di malinconìa che, assicura il filosofo, “è il volto stesso della bellezza”.

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