Quando Gino Salveti mi spiegò il valore di una risata

Il simbolo della Cassino colta, disincantata e calcistica raccontato sull'uscio di un liceo che lo vide professore. E da chi ebbe da lui la prima lezione sulla differenza fra prezzo e valore delle cose. Nei giorni in cui ricorre il centenario dalla sua nascita

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

La prima volta che Gino Salveti entrò nella mia vita facendo ingresso in classe era di settembre, un mese ambiguo per il meteo ballerino e tuttavia cordiale, perché la scuola iniziava ma era roba più di prurito che di zanne. Cordiale esattamente come il volto di Gino Salveti quel giorno, un volto che non aveva ancora assunto la dignità di faccia, perché le facce vengono a galla sempre dopo i volti. Volto che nascondeva tutte le sue doti furette dietro un grosso naso romano e una pelata strisciata lateralmente da due grosse murate di capelli sottili e impomatati alla perfezione in mazzi da una decina per volta.

Gino Salveti davanti al portale di Montecassino

Ad ogni modo ‘sto tizio (secondo i miei occhi di studente) entrò in classe e veleggiò con il suo soprabito color crema che faceva buccia ad una pinguetudine composta. Sotto l’ascella aveva il Messaggero e teneva le braccia inguainate strette al corpo, in un angolo acuto e perfetto che ne ricongiungeva le mani all’altezza del bavero. Sembrava una mantide lusingata da quei Fasule & Tagliarieglie di cui poi avrebbe fatto bibbia gastronomica locale.

In una stanca ora settembrina di prima liceo al liceo-ginnasio Giosuè Carducci di Cassino non ti potevi immaginare nel raggio di chilometri niente di più bigio e più professorale di quell’uomo. Uomo che nel frattempo si era accomodato in silenzio.

L’ingresso in classe: impressioni

Quelle erano le fasi in cui ogni scolaro del mondo studiava il prof, ne valutava preliminarmente l’indole e buttava giù una strategia di approccio. Strategia che prevedeva immancabilmente che, in punto di cazzimma, si attendesse la prima mossa. L’abbrivio di chi, solo in quel momento e in quel posto, stava a metà fra Dio e la Tyke. E ci stava perché aveva le chiavi del registro di classe.

Ci sciogliemmo tutti di sollievo perciò quando Gino Salveti iniziò a fare l’appello come solo Gino Salveti poteva farlo. Cioè cominciando dall’ultimo cognome in ordine alfabetico. E fermandosi ogni due o tre nomi. Giusto in tempo per fare una domanda secca e precisa al cristiano vagamente allocchito che a quel nome corrispondeva.

«Raccontami una barzelletta», questo chiedeva, no, anzi, esigeva. Lo faceva con un tono talmente truce da evocare le solenni spacconate dei pupi siciliani. Lo faceva guardandoti dritto negli occhi con due occhietti fessurati, inquisitori, lucidi, neri. E vispi come quelli delle lontre che addentano i gamberi di fiume e ne scorticano il carapace a pancia in su nella corrente. E quell’aura tetra e teatrante che ammantava la richiesta sembrava una glassa di aceto sopra una palla di zucchero. Lo sembrava da quanto repentinamente capivi che in quel momento esatto lui ti stava perculando.

Un “esame” con le barzellette

Noi non lo capimmo subito però, che Gino Salveti non ci stava perculando ma solo prendendo le misure, e come tutti i grulli di anagrafe leggera vedemmo una crepa in terra dove invece c’era una maniglia in cielo.

Perché la sola cosa che quel giorno e per molti altri giorni ancora passò era che il professor Salveti era uno facile, probabilmente uno stancone che non ci avrebbe mai chiesto di più del minimo sindacale. Al liceo Carducci degli anni ‘80 era manna pura sulla cui eziologia non conveniva ravanare.

Senza curarci delle cause ci godemmo l’effetto per qualche settimana. Solo un mese dopo capimmo. Capimmo che a furia di dare del coglione a tutti quelli che non fossero docenti mannari e giolittiani non ci accorgevamo di quanto coglioni fossimo noi.

Ognuno ebbe la sua folgorazione personale, a step. A me successe quando incrociai Gino Salveti a ricreazione. Io buffoneggiavo con I Miti Greci di Robert Graves sotto il braccio e la buttavo in caciara sul mito orfico della Creazione con il compagno più ciancicato della classe. Tipico dei secchioni infidi. Ti prendi l’anello debole della catena e gli riversi addosso tutta la tua potenza di fuoco per sentirti immenso facendo sentire lui nano. Roba da vigliacchi, per lo più.

La cultura come ponte, non muro

Lui mi si fece incontro, a me e alla mia boria, mi arrivò dritto sotto il grugno e, canticchiando ‘Non ti fidar di un bacio a mezzanotte‘ mi disse: «Per essere mitico invece che mitologico devi essere più spiritoso. Noi l’intelligenza delle persone la misuriamo dal loro senso dell’umorismo. Perché la risata è un ponte e tu finora hai solo alzato muri. Applicati e forse ti salvi dalla carriera».

Poi ruotò il corpo e prese la via del corridoio, girandosi solo un attimo per dirmi con un ghigno da furetto dispettoso: «Anzi, non ti salvi, ti Salveti».

Fu allora che scomparve il volto e vidi la faccia, ed era la faccia più saggia, colta, acuta e disincantata dell’universo. La faccia che sanno avere solo gli uomini che delle comunità sono polpa e polpa restano.

Personalmente l’ho preso in parola: ho imparato un sacco di barzellette, ho messo a bagno nella polvere Moravia e ho cominciato a leggere Guareschi. E anche a fare la tara alle mie cadute, non ho più confuso la carriera con l’esistenza.