
A Formia è riemersa una chiesa invisibile ai registri storici, risalente al VII secolo, scoperchiata da scavi del professor Marazzi e volontari. Accanto a reperti millenari, sono stati trovati scheletri, affreschi e una misteriosa storia da svelare.
A Formia, sotto una zolla polverosa dove il sole picchia senza pietà e le cicale cantano come se non dovessero mai smettere: proprio li è rispuntata fuori una chiesa. Ma non una chiesa qualunque: una chiesa che non compare neppure nel Codex diplomaticus Cajetanus, la bibbia delle carte antiche del Golfo. Una chiesa invisibile alle mappe, ai registri, persino alla memoria degli uomini.
Nessuno l’aspettava. Eppure era lì, millenaria, impolverata, dignitosa. Se ne stava acquattata tra i resti della Villa di Mamurra – quell’antico palazzo romano da dove, si narra, Nerone ammirava il mare pensando a come bruciare Roma. Ma questa non è una storia di imperatori. È una storia di fantasmi.
Gli scavi archeologici

A dissotterrarli, metro dopo metro, pala dopo pala, è stato il professor Federico Marazzi con il suo esercito di giovani volontari dell’Università Suor Orsola Benincasa. In pochi giorni hanno riesumato secoli di pietre, di affreschi, di ossa, di misteri.
«Questa chiesa è del VII secolo», ha detto quasi sottovoce il commissario straordinario del Parco Riviera d’Ulisse Massimo Giovanchelli, come si fa con le notizie troppo grandi per essere pronunciate. Ma non è finita lì. Perché poi sono saltati fuori i riempimenti dei secoli X, XI, XII… e persino dell’Ottocento. L’edificio sacro è stato per secoli rimescolato, coperto, riutilizzato – come se il tempo ci avesse giocato a nascondino.
Nel battistero, in un angolo appena laterale, affiorano i segni di un opificio. Forse lì non si battezzava più: si forgiava qualcosa, si produceva. Il sacro che diventa officina, come in un racconto di Kafka.
Come un romanzo gotico

E poi, come accade sempre nei romanzi gotici, sono spuntati i morti. Prima due bambini, sepolti più in alto – probabilmente ultimi ospiti della chiesa prima che crollasse tutto. Poi, nel giorno conclusivo degli scavi (ché le cose importanti arrivano sempre alla fine), due adulti sepolti più in basso. Più antichi, più silenziosi, forse del XIII secolo.
Ora toccherà all’Istituto Centrale per il Restauro mettere mano agli affreschi, che pare siano tre, uno sopra l’altro. Come le vite che si sovrappongono, come le verità che si contraddicono. C’è un santo con dei calzari: potrebbero risalire al periodo dell’Ipata Giovanni, ma nessuno giura. E in fondo, chi può più giurare oggi?
Tre navate sono emerse. La centrale è ancora tutta da scoprire (solo un quinto è stato indagato), quella destra è chiusa e promette domande, quella sinistra convive con un rudere che c’entra poco e niente.
Il racconto sospeso

Il nome della chiesa? Secondo lo studioso Salvatore Ciccone, potrebbe essere San Vincenzo di Saragozza. Ma anche qui – come accade con le voci del vento – è meglio non giurare.
Ma, come nei finali dei racconti sospesi, ecco un altro colpo di scena: fuori dall’abside spunta un muro romano, verticale rispetto alla cascata dell’edificio ottagonale. Che ci fa lì? Quale storia ancora dorme sotto quei sassi? Perché il tempo, si sa, non costruisce solo. Nasconde. Cancella. E poi, magari, restituisce.
E così, scavando sotto una fontana romana ormai dimenticata, i ragazzi di Marazzi hanno trovato anche un canale di scolo. Una vena d’acqua antica che conduceva alla cisterna delle 36 colonne, la meraviglia idraulica dei tempi andati.
Se a ottobre ci saranno i soldi – perché anche i fantasmi oggi devono passare per i bilanci – si scaverà ancora. E magari emergeranno altri misteri. Perché quella chiesa, che non doveva esistere, ora esiste. È venuta fuori dalle viscere di un parco dimenticato per dire che il passato non muore mai. Semplicemente, ogni tanto, si prende una pausa.