All'improvviso la chiamata dal Vaticano: vai a Montecassino. Da bambino la prima 'chiamata': quella verso la Fede. "Fu semplice e spontanea". "Mi commuovono i piccoli gesti, fatti dalla gente umile". Chiesa e politica: "Tutto è politica, ma non dobbiamo ingerire”. "La preghiera non è il gettone nella macchina dei miracoli”
Viene da lontano, abita in alto, così tanto che parla con Dio. Da quelle parti, dove abita lui, lo fanno da tantissimo tempo: mentre lavorano. Hanno provato a buttarli giù tre o quattro volte ma loro, ogni volta, sono rinati. Ne hanno fatto il loro motto “Succisa virescit” che significa: Recisa alla base, torna a rinverdire. Anche perché è sempre una storia di resurrezione quella che predica ogni giorno il Padre Abate di Montecassino dom Donato Ogliari.
Padre Abate, dopo la Compieta cioè l’ultima preghiera della sera, prima di addormentarsi cosa fa nel silenzio di Montecassino: come trascorre le ore prima del sonno?
Le confesso che dopo l’ultima preghiera della giornata arriva il momento in cui si è un pò più tranquilli. È quello il momento propizio per leggere qualche cosa: perché durante la giornata effettivamente tante sono le incombenze, gli incontri con le persone che arrivano in abbazia, o gli impegni al di fuori del monastero, che raramente si ha la possibilità di chinarsi su qualche libro o qualche articolo.
Gli ultimi tre libri che ha letto?
Sto leggendo un libro di Timothy Radcliffe, che è stato Maestro Generale dell’Ordine dei Domenicani. È molto bello. Lo sto leggendo in inglese, quindi non saprei adesso come sia stato tradotto il titolo del libro in italiano. E poi sto leggendo alcuni testi di letteratura locale, più che altro: articoli di natura spirituale o di natura teologica o di natura filosofica.
Non ‘stacca’ mai: la sua ricerca di Dio va avanti costantemente…
Certamente. Anche perché la ricerca di Dio non è che si verifichi solamente quando si sta in chiesa a pregare, o quando si è chinati su qualche libro nella meditazione o nell’approfondimento. La ricerca di Dio va avanti giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto: cambia solo il contesto.
Lei quando l’ha incontrato Dio?
Diciamo che l’ho incontrato in maniera molto semplice quando ero ragazzo.
A che età?
Adesso è difficile dire a quale età. Anche perché io sono cresciuto in un ambiente molto religioso: in una parrocchia della Diocesi di Milano anche se si trovava in provincia di Como. Lì la Chiesa aveva un influsso determinante nella vita di tutti i giorni. La presenza dell’oratorio oltre che delle celebrazioni liturgiche… È stata una cosa spontanea. L’attrazione è diventata sempre più viva nel momento in cui, ancora piccolo, ho cominciato a fare il chierichetto. E quindi il mondo del Sacro mi si è aperto e mi si è, in qualche modo, svelato.
Monaco ma non fu la prima scelta
Ma Dio come ci chiama? Chiama tutti allo stesso modo, in maniera cinematografica, si sente il nome e noi ci voltiamo? Oppure la chiamata è più interiore, avviene poco alla volta, si aprono gli occhi gradualmente?
Non esiste una chiamata omologante nella maniera più assoluta. Certo ci sono ‘chiamate’: ma questo avviene in età adulta, dove attraverso una conversione radicale, un cambiamento radicale, uno scopre la presenza del divino.
Nel caso mio è stato un cammino veramente lento e privo di grosse sorprese. Nel senso che il contesto religioso nel quale sono vissuto mi ha aiutato a rendermi sempre più conto di questa presenza di Dio nella mia vita.
Poteva fare il Francescano, il Cappuccino, il Maronita… ha scelto di fare il Benedettino, che sono quelli che pregano e lavorano. Insomma, lei si è preso la parte più faticosa. Perché?
Sarà sorpreso di sentire che, in effetti, la vita monastica non è stata la mia prima scelta. Io, da ragazzino, sono entrato in un seminario di un istituto missionario: ero attratto da questo missionario che girava nelle parrocchie del mio territorio. Quindi, ancora ragazzino, non avevo neppure undici anni, ho cominciato a frequentare il seminario in prima media. E ho fatto tutto il mio itinerario di formazione con loro. Solo quando, in età un pò più adulta, mi sono incontrato con il primo monaco benedettino, mi si è aperto un mondo diverso.
Che mondo è quello dei Benedettini?
È un mondo per certi versi strano, perché non riflette quello che probabilmente uno si attende sulle prime. Uno pensa al religioso che è immerso nella vita del mondo e quindi è a contatto con i problemi dei nostri fratelli e sorelle. Invece la vita monastica viene soprattutto vissuta all’interno delle mura monastiche. Questo non significa che ci si dimentichi del mondo, no. San Benedetto ha voluto essere, anche lui, pienamente inserito nel mondo nel quale viveva, però con questa peculiarità: anziché andare, attrarre le persone.
Attrarre attraverso una vita comunitaria, dove tutto è condiviso: dalle cose più spirituali (come la preghiera) a quelle più materiali (noi non possediamo cose in proprio, ma tutto ci viene dato dal padre della comunità che è l’Abate). E dove la nostra vita attraverso il lavoro, attraverso lo studio, attraverso la preghiera, cerchiamo di dare la nostra piccola testimonianza. E di offrire il nostro contributo a quanti ci accostano, a quanti vengono a noi per aprire il proprio cuore, per farci anche partecipi delle loro difficoltà, siano esse morali, spirituali o materiali.
Luce e sorrisi, non penitenze
C’è un’iconografia, una cinematografia che ci rappresentano il mondo monastico quello religioso in genere, come cupo, triste, buio. Lei viene qui col sorriso, anche i suoi monaci e tanti religiosi hanno sempre il sorriso.
Non potrebbe essere diversamente. Perché il Vangelo è gioia, è libertà, è generosità, è amore, è pace, è tutto quello che potremmo aggiungere a questi termini.
Abbiamo il sorriso probabilmente perché la vita monastica, per la sua ritiratezza, ha dato un pò questa impressione di essere una vita di penitenza, una vita di disagi, una vita che non conosce le gioie della vita quotidiana. Mentre la vita monastica, proprio perché è una ricerca di Dio, che è appunto luce, che è fonte della gioia, è fonte della libertà, ecco, la vita monastica anela a questo e cerca di trasmettere anche questo.
Lei ha mai avuto un momento di crisi?
Come no. E’ capitato, capita ancora e capiterà probabilmente anche in futuro. Perché ci sono delle realtà umane che ci lasciano senza parole, non solo quelle che ci toccano personalmente. Perché ci sono momenti di crisi anche nel nostro cammino personale, ovviamente. Poi è chiaro che col passare degli anni uno si stabilizza, trova un suo equilibrio, trova una sua armonia.
Ma ci sono delle problematiche, che provengono dalle persone che si presentano a noi, di fronte alle quali, a volte, il silenzio e l’empatia, la compartecipazione sono gli elementi principali, auspicabili. Non c’è bisogno di sprecare parole, ma semplicemente di far capire, intuire, quasi toccare con mano la partecipazione viva, questa vicinanza, questa prossimità per una persona che soffre per un determinato problema, che ha scombussolato la sua vita.
Quali sono le lacrime più difficili da asciugare?
Gli episodi sono tanti. Adesso ho presente questa mamma che aveva il figlio in prigione e non sapeva come capacitarsi di quanto era avvenuto. E ricordo quella frase che disse, che mi lasciò di stucco: “Ma nonostante tutto – disse- è mio figlio”. Ecco, questa madre che, al di là del dolore che provava per quanto il figlio aveva combinato, non cessava di essere mamma.
E qual è invece la cosa che l’ha commessa di più?
Le cose che mi commuovono di più sono le cose semplici, gli atti di bontà che a volte passano inosservati. Queste sono, per la mia sensibilità, le cose che spesso mi commuovono fino a provare lacrime nascoste. Cerco di non farle arrivare fuori, ma mi commuovo veramente di fronte a piccoli gesti di bontà compiuti da persone umili, semplici, in maniera nascosta. Quei gesti, che nessuno vede. Lasciano veramente un segno profondo nel cuore.
Il messaggio complesso e semplice
È una religione difficile quella che lei deve raccontare tutti i giorni dall’altare, o quando va in giro. Perché abbiamo un Dio onnipotente che viene invocato dagli ebrei e invece di mandare un guerriero con la spada che li liberasse dai romani oppressori, manda un bambino. Invece di mandare un leone si fa rappresentare da un agnello. Nel momento in cui manda il figlio e glielo crocefiggono quello è il momento in cui lui salva tutti. Ma come fa lei a rappresentare una religione così complessa?
In effetti, è una religione complessa la nostra. E, proprio perché è complessa, non si raggiunge il suo cuore attraverso i semplici ragionamenti. Richiede un’adesione del cuore e della vita, un’adesione personale, che è appunto il discorso di fede.
Quando lei parla di un Dio onnipotente dobbiamo però uscire da certi schemi ai quali forse siamo stati un pò abituati. Dio non è onnipotente perché può intervenire nella maniera più potente come se fosse un drago sputa-fuoco che sistema tutti i suoi nemici o le situazioni che non vanno bene le risolve con uno schiocco delle dita. Dio è onnipotente nell’amore. E Gesù, quel bimbo che è Dio fatto uomo che è venuto in mezzo a noi, è proprio venuto per indicarci questo paradosso del suo Vangelo.
Non si vince attraverso la violenza, la potenza, l’imposizione, l’oppressione, la ricchezza, ma si vince attraverso il dono della propria vita, il dono di sé che si fa prossimità, che si fa aiuto verso gli altri.
Che, nel caso di Gesù, di questo bimbo incarnato e fatto uomo, e diventa salvezza. Noi crediamo che egli ci abbia portato la salvezza, una salvezza che non è qualche cosa che dobbiamo attendere dopo la morte, ma una salvezza che in qualche modo già si realizza qui, attraverso la testimonianza di una vita cristiana improntata sul suo vangelo.
Destinazione Montecassino
Lei cosa ha pensato quando l’hanno chiamata e, ad un certo punto, le hanno detto: “ Sai, adesso, c’è una cosa nuova: te ne vai a Montecassino” ?
Non ho pensato molto, nel senso che questa è una cosa che non capita, diciamo, nella normalità. Perché, come noto, è la comunità monastica che sceglie il proprio Abate. Ecco, la mia è stata una nomina che è venuta direttamente dalla Santa Sede, dal Papa Francesco, e di fronte alla quale non resta che chinare il capo e obbedire.
Quindi, ho lasciato la comunità di cui ero Abate, in provincia di Bari, a Noci, e sono venuto a Montecassino, sostenuto però da questa fiducia e da questa speranza: sapevo di andare nella casa di San Benedetto, dove c’era il fondatore del nostro Ordine, dove ci sono i resti suoi e della sorella Scolastica, che lì sono custoditi.
L’hanno mandata a Montecassino però in un momento particolare. L’ha spaventata questa premessa?
Diciamo che sulle prime no, non mi ha spaventato perché quello che è capitato, e che tutti conosciamo mediaticamente, è avvenuto dopo, quando io ero già arrivato a Montecassino da un anno. Quindi quando ho dovuto affrontare quella situazione particolare, che tutti noi conosciamo, certamente ha richiesto un surplus di fede e di fiducia. Ma quella fede e quella fiducia hanno il proprio fondamento nella certezza che il Signore comunque guida la Storia, che la Chiesa è piena di peccati e di peccatori, dei quali facciamo parte anche noi, come dice Papa Francesco. La Chiesa, proprio perché è guidata dallo Spirito Santo, riesce a superare tutti i momenti di prova.
Avrebbe mai pensato che si sarebbe ritrovato a fare da arbitro in un derby tra San Benedetto e la Madonna Assunta? (Leggi qui Civitas Mariae, pronta la delibera di revoca: il vescovo ottiene una proroga).
Mah, diciamo che ho preferito non fare da arbitro perché era una cosa che, insomma, mi sembrava che uscisse un pò dal seminato. (Leggi qui I tifosi di diocesi e abbazia stringono il sindaco: ma Salera è svelto a smarcarsi).
Ecco, perché, diciamolo francamente, insomma, non si può fare un derby tra San Benedetto e la Madonna, non solo perché la Madonna vincerebbe di sicuro, in ogni caso, ma proprio perché non è questo il senso della presenza monastica benedettina a Montecassino. E non è questo il senso di un cammino di Chiesa, che deve trovare tutti gli elementi di comunione e di condivisione e quindi evitare tutto ciò che può portare divisione, separazione, incomprensioni.
Potere (poco) temporale
Tra i suoi predecessori c’è chi ha interpretato il ruolo in maniera molto politica. Lei ha dato un’impronta molto più contemplativa. Ora: o fa il politico e non se ne fa accorgere, o ha deciso di percorrere un’altra strada: quale delle due?
La politica, in un modo o nell’altro, la facciamo tutti: attraverso il nostro modo di essere, di comportarci, di relazionarci con le altre persone e con le istituzioni.
Però, chiaramente, ritengo che il ruolo di Abate sia quello di gestire e di guidare una comunità monastica secondo la regola di San Benedetto, e quindi come Istituzione Ecclesiale. Istituzione Ecclesiale che poi ha comunque dei rapporti anche con le Istituzioni, ma senza ingerirsi in quello che avviene nel territorio, pur mostrando, se necessario, le nostre ragioni o il nostro punto di vista.
Ecco, forse in passato gli Abati, come lei ha definito, erano un pò più politici perché risentivano anche di un passato, non tanto lontano, in cui Montecassino era un feudo. Quindi, tutto ciò che nella Terra Sancti Benediciti si vedeva, e ancora si vede oggi, era frutto dell’attività dei monaci: non era solo un impegno spirituale il loro, ma anche amministrativo e politico vero e proprio. Per cui, forse, era rimasta lungo il tempo anche quest’accezione.
A proposito di attività dei monaci: lei è quello che, ad un certo punto, riscopre, intorno all’abbazia, la vasta estensione di terreni e masserie che storicamente avevano sfamato la comunità. Decide di rimetterli in produzione. Anche lì: polemiche. Con il senno del poi: lei quella scelta la ritiene ancora valida? (Leggi qui L’abate fa l’avvocato, l’avvocato fa il paciere, e Daniele farà la birra).
Sì, ritengo che sia stata una buona scelta. Si trattava di rivalutare questi nostri possedimenti, queste masserie e i terreni adiacenti che erano rimasti incolti, abbandonati per diversi anni. Quando ormai la comunità si era rimpicciolita numericamente e quando non vi era più a Montecassino né il seminario, né il collegio, perché si trattava, come diceva, di parecchie persone da sfamare e quindi c’era bisogno di tutto questo contesto agricolo che aiutava e interveniva.
Ora, mi pare che il progetto sia buono, al di là delle polemiche che sono sorte all’inizio, e sappiamo perché sono sorte, ma incomprensioni ed equivoci che col tempo, ecco, sono stati, se non del tutto risolti, spiegati. (Leggi qui Montecassino spilla la sua rivincita all’Albaneta).
Questa iniziativa, comunque non fa capo direttamente all’Abbazia: noi abbiamo affittato questi terreni al nostro locatario. E su quello che fa c’è molta attenzione, da parte nostra e da parte sua. Soprattutto, c’è il desiderio di coinvolgere proprio il territorio, sempre sulla linea di quello che l’Abbazia, dal canto suo, ha fatto per secoli.
Nessuna indulgenza
Quanto è cambiata la gente in questi anni, da quando lei ha preso i voti? Oggi l’impressione è che vi abbiano scambiato per una sorta di discount delle indulgenze. “Io ho pregato, ma non ho avuto niente”- si lamentano pure. E’ vero che accade questo?
Accade anche questo, ma probabilmente perché c’è bisogno di recuperare il vero senso del cristianesimo che non è, appunto, come andare a mettere il gettone in una macchina automatica ed ottenere quello che si chiede. Il discorso di fede è ben altro e non esclude all’orizzonte anche la croce. Almeno, per il cristianesimo la croce è illuminata dalla Resurrezione, è vero, ma rimane il fondamento attorno cui tutto ruota.
Quindi questo forse è un pochettino da sfatare in un società in cui si vuole tutto e subito e in cui il minimo sacrificio, la minima difficoltà, la più piccola sofferenza, vengono visti come qualche cosa da evitare nella maniera più assoluta, dimenticando che la nostra natura umana è fatta di questi chiaroscuri. E anzi: forse gli scuri più dei chiari ci aiutano a crescere e a consolidarci anche nella nostra umanità.
L’ha amareggiata di più questo atteggiamento del popolo di Dio o l’ha amareggiata di più una politica che cerca di trascinare, sotto una bandiera o sotto l’altra, Montecassino? O il carrierismo all’interno della Chiesa?
È difficile dire se mi ha amareggiato di più questo o quello. Entrambe le cose che lei ha citato concorrono. Sono parte dei limiti della nostra umanità. Certamente credo che l’attenzione che dobbiamo porre oggi come Chiesa, e quindi anche come monaci, come Istituzione all’interno della Istituzione Madre, che è la Chiesa, è questa attenzione a non omologarci con il pensiero corrente.
È facile inseguire, senza fare esempi concreti, coloro che promettono di più, o sembrano promettere di più alla Chiesa. Ma la Chiesa deve essere libera, deve essere fondata sul Vangelo. Deve dialogare con tutti certamente, ma non deve essere ammanicata con nessuno in maniera particolare, se non dove c’è del bene da svolgere e viene svolto in maniera gratuita.
Ecco, questo credo che sia uno degli aspetti ai quali dobbiamo far attenzione perché, non essendo più nel regime di cristianità, nel quale abbiamo vissuto per tanto tempo in passato, dove Chiesa e politica in qualche modo andavano a braccetto, o trovavano un loro compromesso o equilibrio, ecco oggigiorno ci avviamo sempre di più ad una Chiesa che sarà minoranza nelle nostre società, almeno occidentali. Dobbiamo riguadagnare questa forza, che ci proviene dal Vangelo, che non ci fa cedere di fronte alle lusinghe dell’uno o dell’altro.
La Fede giorno per giorno
Padre Abate, in sintesi la fede è una cosa che si rinnova giorno per giorno e si manifesta soprattutto nelle piccole. E’ così?
Certamente. Mi permetto di dirlo, ma poi lo traduco subito. C’è una distinzione che i nostri teologi facevano in latino tra fides qua e fides quae: fides quae è la fede che noi crediamo, le verità dottrinali e poi c’è la fides qua cioè la fede con la quale io credo quelle cose, ossia, l’assenzo personale.
Questo è importante perché altrimenti diventa una fede di facciata, una fede che di fronte alle minime difficoltà crolla, come l’esempio che faceva lei, “Io ho pregato e non sono stato ascoltato”: non è questa la fede.
L’assenso personale comporta veramente abbracciare nella sua totalità il vangelo di Gesù, anche in quello che può essere un pò più aspro per noi.
Qual è l’ultima cosa alla quale pensa la sera prima di andare a dormire?
La cosa a cui penso è: “è finita un’altra giornata: come abbiamo speso il nostro tempo in abbazia? Quale testimonianza abbiamo dato non solo al territorio, ma anche a tutti coloro che la frequentano, che vengono da tutto il mondo?”. Questa è un pò la preoccupazione principale.
La nostra quotidianità, spesso invisibile ai più, quale segno, quale ricaduta ha avuto nel contatto con il territorio, con le persone che sono state in Abbazia? Probabilmente non c’è una risposta, anzi, molto spesso non c’è a meno che non ce la diano nel colloquio le persone che abbiamo incontrato, ma questa è la nostra segreta certezza: nel nostro piccolo abbiamo gettato un seme che forse produrrà qualcosa di buono.