Fenomenologia della leadership. Capi veri o guappi di cartone

Come si è evoluta la figura del leader in politica? Un excursus necessario alla luce degli ultimi avvenimenti con la pace mondiale messa a forte rischio

Franco Fiorito

Ulisse della Politica

Il guappo, in napoletano, è una persona arrogante, prepotente. Spesso un leader, qualcuno in grado di farsi rispettare con le buone o, molto più spesso, con le cattive. Il significato è un po’ controverso. Nel suo utilizzo comune, ha un’accezione negativa: un simil-bulletto, però un po’ più minaccioso e pericoloso.

Il termine deriva probabilmente dallo spagnolo, dalla parola “guapo” che significa bello, ma anche coraggioso e spavaldo. E da qui anche persona rissosa, violenta e prevaricatrice. Dalla radice spagnola deriva probabilmente anche l’accezione di ostentazione del vestiario o comunque degli status symbol che gli permettono di infondere la sua influenza sugli altri.

L’espressione napoletana “guappo ‘e cartone” invece ha un significato quasi del tutto opposto. Indica precisamente la persona che si atteggia a boss, a minaccioso, ma quando poi viene chiamato il suo bluff, se la fa sotto dalla paura, inventa scuse o fugge.

Antitesi al concetto di leadership

I leader del mondo al G7 di Capri

E dato un senso al termine, che probabilmente già conoscevate, chiariamo di averlo usato come antitesi completa al concetto di vera leadership. Ovvero ponendoci la domanda: i leader attuali nel mondo sono veri leader o guappi di cartone? Sono dotati di una personalità in grado di condurre le nazioni verso porti sicuri o sono meri interlocutori di facciata collocati nei posti di potere da organizzazioni più o meno visibili che invece detengono il vero potere?

E soprattutto è ancora la nostra era adatta alle figure dominanti, ai leader veri? O il tentativo di costituire questo blob informe mondiale sta coprendo tutto di questa disgustosa melassa omologante che rende tutto identico ed impalpabile?

In più, molto attualizzante direi, i nostri leader saranno in grado di gestire veramente la presupposta escalation bellica che si va delineando nella confusione mondiale più totale? O si riveleranno solo dei guappi di cartone che ci porteranno al disastro o peggio fuggiranno davanti le incombenti responsabilità?

Proviamo ad analizzarlo.

Gli studi classici

Non ci sono più i leader di una volta! Questo lo sentiamo spesso e quotidianamente. L’affermazione non vuole essere allusiva, ancor meno insinuante, per nulla offensiva. Non si intende qui esprimere alcuna valutazione di merito, né confrontare in modo improprio e anacronistico i leader odierni con i loro predecessori ma, semplicemente, prendere in esame le modalità, i termini e le condizioni moderne del “fare politica”. Gli studi classici sulla leadership riguardavano sempre la personalità dei grandi uomini, descritti come figure uniche, capaci di trasformare i propri seguaci con la sola forza della volontà.

Friedrich Nietzsche

I modelli di questi geni straordinari comprendono figure come il “grande legislatore” di Jean-Jacques Rousseau, il “superuomo” di Friedrich Nietzsche, l’”eroe” di Thomas Carlyle, e l’idealtipo di Max Weber del leader carismatico. L’idea di un leader carismatico che domina un pubblico da lui soggiogato è centrale negli scritti dello psicologo francese Gustave Le Bon – che con la “psicologia della folla” fornì di fatto dei suggerimenti pratici per molti uomini di potere successivi – e in quelli di Gabriel Tarde, il fondatore dei moderni sondaggi dell’opinione pubblica.

Un concetto analogo animava anche la “psicologia delle masse” di Sigmund Freud. Essenzialmente, questi autori vedevano la società ed i suoi membri come una sorta di “sonnambuli” in attesa della voce ispirata di un leader capace di incanalare il loro desiderio di autorità e di direzione.

Diversamente da quelli della prima tradizione “eroica”, questi autori non dipingono i leader in modo positivo, ma come figure teatrali irrazionali ed emotive di monomaniaci egocentrici. Diverse situazioni conducono infatti a tipi di leader meno desiderabili, comprese certe personalità autoritarie.

Un concetto complesso e variegato

Di conseguenza, i ricercatori si sono dedicati a scoprire le interazioni fra leadership e contesto, con lo scopo empirico di trovare ed educare gli organizzatori più efficienti e di incoraggiare stili di leadership democratici. Il compito del leader in questo caso consiste semplicemente nel mantenere il gruppo in quanto tale. È diventato chiaro anche che chi comanda non è necessariamente un leader: alcuni sono “comandanti”, il cui potere deriva soltanto dalla loro posizione in una gerarchia.

Proprio quello che vi anticipavamo introducendo. Oggi il concetto di leadership è talmente complesso e variegato che ha travalicato il senso originario della parola divergendola in molteplici direzioni. Oggi chi comanda non è necessariamente anche un vero leader.

Questo è il frutto dell’incrocio tra le teorie leaderistiche pure e il loro scontrarsi con le costruzioni democratiche recenti fatte di pesi e contrappesi. A volte anche troppi. Anche i “seguaci” possono essere distinti per diversi aspetti: alcuni sono legati al leader perché si aspettano strumentalmente di ottenere un qualche vantaggio, altri perché credono nei suoi valori, altri ancora per affetto verso il leader o verso il gruppo.

La proposta di Burns

(Foto: © DepositPhotos.com)

Tra le numerose modellizzazioni, da citare quella proposta da George Burns nel 1978, che individua cinque diversi tipi di leader:

a) opinion leader, inteso come il soggetto capace di influenzare in maniera determinante l’opinione pubblica;

b) leader burocratico, rappresentato dai soggetti che hanno un potere nei sistemi organizzativi e svolgono quindi una funzione di orientamento e controllo su altri soggetti;

c) leader di partito, espressione che racchiude in realtà una pluralità di attori politici e, più in generale, tutti quelli che ricoprono cariche politiche;

d) leader legislativo, rappresentato principalmente dal politico che tradizionalmente agiva al riparo dello sguardo pubblico, ma ciononostante aveva un grande potere all’interno della sua compagine politica: si tratta di una figura pressoché scomparsa nella politica mediatizzata della contemporaneità e che si incarnava nelle diverse figure di “consiglieri” del principe;

e) leader esecutivo, per lo più associato al re, al principe, al primo ministro, al cancelliere.

(Foto: © DepositPhotos.com)

In realtà Burns individua anche altri tipi di leadership, che egli definisce “trasformazionali”, dal momento che il loro elemento di maggiore importanza è rappresentato dalla capacità di promuovere un cambiamento continuo.
In questo caso si possono avere:

1) il leader intellettuale, capace di fornire una vision complessiva a un’azienda o a un’intera società;

2) il leader morale o riformatore, che individua una specifica dimensione etica e su quella costruisce la sua azione;

3) il leader rivoluzionario, capace di provocare cambiamenti radicali, spesso connessi anche a una forte capacità di agitare dinamiche populistiche;

4) il leader carismatico, che usa il suo fascino personale per orientare la sfera pubblica.

Una figura vivisezionata e inquadrata

Lorenzo Jovanotti Cherubini (Foto: Polifoto © DepositPhotos.com)

Perdonatemi se mi sono dilungato in tecnicismi dovuti ai miei studi appassionati ma era funzionale al discorso capire che la figura del leader è ormai talmente vivisezionata, analizzata, inquadrata che ognuno di loro cade certamente in una casella già ben definita. Se lo volessimo dire alleggerendo il tema lo faremmo citando Jovanotti quando cantava in Io penso positivo: “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando da Malcom x attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il vaticano”.

Ecco se ci pensate ognuno di quelli citati rientra in una delle categorie di leadership che scolasticamente ma con beneficio abbiamo elencato. Possiamo definire ecumenicamente dunque leader colui il quale, nel corso della sua appartenenza alla vita di un organismo sociale, influenza gli altri membri e, più in generale, le attività che l’organismo svolge o si accinge a svolgere. Gli americani che sono più moderni ed agili di noi distinguono ancora tra leadership ed headship chiedendosi in modo retorico: Che tipo di relazione c’è tra leader e seguaci? Di potere, di influenza, di autorità? E rispondendosi semplicemente: Nessuna delle tre e tutte e tre allo stesso tempo.

Ciò è possibile se si adotta una definizione classica di potere che sia in grado di comprendere non solo l’hard power, ma anche il soft power: se si concepisce il potere come capacità di far fare agli altri cose che non avrebbero fatto da sé, diviene chiaro che la leadership è essenzialmente un fenomeno di potere. Un è più coercitivo l’altro più persuasivo.

Il carisma del capo

Donald Trump (Foto: Saul Loeb / AFP / Ansa)

Potere duro e potere morbido dunque. Che se ci pensate è esattamente il dibattito di questi giorni tra l’esercizio del potere “duro” di Trump e la contrapposizione di quello “morbido” per esempio dell’Europa. Non tutti coloro che sono chiamati a svolgere funzioni direttive hanno uguali attitudini a comandare: riescono a farlo in maniera efficace soltanto quelli che possiedono certe doti e qualità personali non ordinarie, tra i quali colui che Max Weber chiama il “carisma del capo”.

Ecco ed è proprio sul concetto di carisma del capo che si concentra la differenza tra la politica e gli altri tipi di organizzazione. O meglio tra la politica contemporanea e gli altri. Infatti oggi si è arrivati ad un grado di personalizzazione che mai si era raggiunto nell’epoca moderna. Complice la fine della struttura dei partiti storici e l’avvento della comunicazione di massa.

La “personalizzazione” della leadership è oggi un dato incontrovertibile e strutturale: è la “cifra” per comprendere la politica. Essa può essere definita come un processo attraverso il quale, ad una diminuzione del peso politico dei gruppi, corrisponde un incremento della rilevanza dei singoli attori politici in quanto persone. Meno uomini di partito più personaggi.

La personalizzazione della leadership

Giorgia Meloni

Oggi infatti i leader vengono vivisezionati sia sul lato pubblico che quello privato. Esposti completamente all’analisi del pubblico. Anche se molti tendono a pensare che la crescente personalizzazione” della politica elettorale come un aspetto del degrado della comunicazione politica di massa. Col passare del tempo, con il ridimensionarsi della funzione di aggregazione delle domande svolta dai partiti, con l’espansione del ruolo e delle funzioni dello Stato e con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, si è sviluppato di fatto un processo di “personalizzazione” della leadership, che ha spostato l’attenzione dalla carica e dall’ufficio alle singole personalità.

Quanto più la società si “atomizza”, quanto più il cittadino si allontana dalla politica, quanto più si indeboliscono i legami di identificazione partitica, tanto più la “personalizzazione” della politica ed il cosiddetto “leaderismo” divengono strumenti essenziali per favorire il riavvicinamento del cittadino ad una politica che pare sempre più distante, incomprensibile e difficile da influenzare.

Il leader e la sua immagine rappresentano infatti una soluzione alla complessità, una “scorciatoia cognitiva” che permette al cittadino-elettore di instaurare una sorta di dialogo costante con quello che pare essere il detentore del potere politico. Il cittadino immagina un rapporto diretto col politico di riferimento. Avete presente quando la Meloni si fa chiamare Giorgia come se fosse una amica con cui parlare direttamente, ecco è una strategia ben precisa.

Un faro per i cittadini

In questo modo, la politica si fa tangibile, si avvicina al cittadino e si rende, almeno superficialmente, intellegibile. Soprattutto laddove le istituzioni sono deboli, la figura del leader diviene un “faro” che indica la strada da percorrere per trovare soluzioni ai quotidiani problemi sociali, politici ed economici. Ciò non significa, ovviamente, che i partiti ed i loro dirigenti abbiano perso il ruolo di controllo e di influenza nei confronti del proprio leader: la “personalizzazione” della politica si inserisce nel contesto di un processo generale di trasformazione dei partiti che viene normalmente sintetizzato nel passaggio dal partito di massa fino a organizzazioni leggerissime, funzionali esclusivamente alla conquista del potere. Cosi come ad esempio sono i partiti americani ora. Anche se da noi siamo come per dire alla metà del guado, sopravvive ancora qualche struttura partitica ma che va alleggerendosi sempre più.

Il peso del leader sulla scelta di voto è accresciuto, oltre che dalla crisi (intesa anche come trasformazione) dei partiti di massa tradizionali e dalla loro de-ideologizzazione, anche da altri fattori: innanzitutto da una serie di riforme istituzionali che, intervenendo sul sistema elettorale, hanno rafforzato il ruolo dell’esecutivo e in particolare del capo del governo. Con riferimento al nostro Paese, la prima variabile del processo di “presidenzializzazione” riguarda la crescita del controllo sul potere esecutivo da parte del Primo Ministro. Infatti il dibattito ruota sempre di più su Leadership, premiership e sistemi elettorali.

Avete notato quante volte nell’epoca recente è cambiata la legge elettorale? Oggi la legge è diventata uno strumento si plasma alle leadership e non più il contrario. E adesso comprenderete anche il dibattito accesissimo sulle riforme proposte dalla Meloni. Controllare il sistema elettorale e istituzionale significa gestire o no un vantaggio in base alle proprie caratteristiche.

Il peso della comunicazione e dei media

La “personalizzazione” del potere è strettamente legata al processo di “mediatizzazione”: attraverso la comunicazione di massa, istituzioni e politici possono raggiungere la grande massa del pubblico dei cittadini-elettori. Infatti, l’evoluzione della comunicazione politica, sempre più dipendente da un medium essenzialmente visivo e personalizzante come la televisione, ha prodotto una crescente attenzione verso i leader politici a scapito dei rispettivi partiti.

Però i mass media non si limitano a fare da tramite: essendo organizzazioni con finalità proprie che non coincidono necessariamente con quelle degli emittenti politici e con proprie regole di funzionamento, sottopongono i messaggi provenienti dalla sfera politica ad una importante mutazione per farli corrispondere alle proprie esigenze produttive. E spesso esigenze economiche diciamolo.

La logica sottostante alla tesi dell’influenza della comunicazione sulle scelte elettorali si possa articolare nelle proposizioni che seguono: 1) Fonti di informazione schierate. Gli strumenti attraverso i quali i cittadini si informano sulle vicende elettorali diffondono messaggi almeno in parte differenziati a favore dell’una o dell’altra delle forze in campo; 2) Esposizione selettiva. Gli elettori non utilizzano indifferentemente tutti i canali di comunicazione loro disponibili, ma ne privilegiano alcuni e ne trascurano altri, col risultato di ricevere solo una parte dei flussi della comunicazione provenienti dalle diverse fonti; 3) Sintonia tra fonti di informazione ed elettori. Esiste una stretta relazione tra l’orientamento politico delle fonti e le preferenze politiche dei cittadini; 4) Influenza della fonte sugli orientamenti.

In questa relazione la variabile indipendente è il canale di comunicazione (o meglio i messaggi da esso diffusi) mentre le scelte di voto degli elettori costituiscono la variabile dipendente o l’effetto dell’esposizione selettiva a fonti partigiane di informazione.

Comizi e tribune politiche in archivio

Tribuna Politica

Sta di fatto che, ai comizi più o meno affollati in piazza, alle interminabili discussioni in fumose sezioni di partito, alle civili ma soporifere tribune politiche, in cui l’essenza della politica risiedeva nel confronto/scontro di idee finalizzato alla conquista del consenso, sono subentrate forme di comunicazione politica con connotati molto differenti: nella società postmoderna, leader e partiti non possono fare a meno di affrontarsi nell’arena dei media, che ne dilata la visibilità e rappresenta un filtro di selezione delle élite da cui non è possibile prescindere.

In un contesto dominato sempre più dai mezzi di comunicazione di massa – che hanno soppiantato quasi del tutto le forme e i canali tradizionali di socializzazione politica – i competitori politici avvertono l’esigenza di promuovere, consolidare, radicare la propria immagine, indipendentemente e al di fuori del periodo strettamente e ufficialmente delimitato di campagna elettorale. Ne consegue che, in una competizione elettorale, la partecipazione e magari la vittoria sono il frutto di una strategia di lungo periodo esplicitamente ideata e gestita per attrarre una positiva attenzione da parte dei mezzi della comunicazione di massa, per controllarne la copertura e indirizzarlo nelle direzioni volute.

La “parola” del leader

Silvio Berlusconi

Importantissima oggi dunque la “parola” del leader ma anche la sua capacità di cimentarsi coi nuovi mezzi comunicativi. Tutto questo ha fatto storcere il naso a molti facendo parlare di “leadership dell’ego”. E della definizione di “partiti personali”. Ne ricorderemo l’infinta tiritera nell’ epoca Berlusconiana. E la sua riproposizione tale e quale oggi con Trump.

Tra le conseguenze della “mediatizzazione” sono sicuramente da annoverare la “spettacolarizzazione” e la “popolarizzazione” della politica. O quello che comunemente viene definito populismo. Vocabolo usato ed abusato quotidianamente. Per rispondere al processo di “mediatizzazione” della politica, i partiti e i leader si sono attrezzati mediante la “professionalizzazione” delle campagne elettorali, basata sul contributo di consulenti, sondaggisti ed esperti di comunicazione.

Tra le letture su questo argomento segnalo quella di un mio amico a cui dedico molta stima che è Angelo Mellone attualmente importante dirigente Rai che scrisse un articolo illuminante: “L’indispensabile apparenza: Le prospettive del marketing politico”, in “Rivista italiana di scienza politica”. Centrando con la definizione di “indispensabile apparenza” al meglio le caratteristiche e necessità dei comunicatori politici moderni. Un capitolo a parte meriterebbe la nascita di nuove figure come gli “spin doctor” frutto di questa evoluzione politica in grado di indirizzare influenzare il politico anche in campi comunicativi dove il leader autonomamente non eccelle. Senza piaggeria tra questi vorrei citare il nostro direttore che oltretutto ha dimostrato di precorrere i tempi creando questa testata per cui sono onorato di scrivere che ha esattamente le caratteristiche necessarie alla comunicazione moderna.

Un sondaggio al giorno…

Uno dei tanti sondaggi effettuati in questi ultimi tempi

Ma tutto questo ha portato ad un ulteriore contraccolpo nel cambiamenti quella che chiameremo con espressione non nostra la “sondocrazia”. Il ruolo del marketing politico è enfatizzato dall’adozione dei sondaggi e dallo scivolamento verso il potere dei sondaggi. In un’epoca come l’attuale in cui l’opinione pubblica si trasforma in audience la politica non può fare a meno delle tecniche di marketing, con annessi strategist e media trainer. I sondaggi in pratica ormai si sostituiscono alla presenza della politica nel territorio. Per questo scompaiono via via i partiti pesanti.

Oggi abbiamo praticamente un sondaggio al giorno e questo ha spostato anche l’asticella dei comportamenti dei leader in corsa portandoli praticamente ad una campagna elettorale permanente. Ai fenomeni della “personalizzazione”, della “mediatizzazione” e della “professionalizzazione” della politica è necessario accostare la tendenza alla “campagna permanente”, ossia alla continuazione della competizione fra i leader e gli schieramenti politici anche nei periodi non elettorali, con il lancio continuo di campagne e appelli d’opinione e con relativi duelli tra spin doctor. Il succedersi di competizioni elettorali di primo e secondo livello contribuisce a creare una situazione di campagna lunga, non delimitabile a una singola competizione.

La “democrazia del pubblico”

Vladimir Putin

La democrazia rappresentativa è fondata sul principio della mediazione, che veniva svolta principalmente dai partiti e da altre organizzazioni che offrivano ai cittadini l’identificazione con un sistema politico e istituzionale. La crisi del rapporto fiduciario tra cittadini e partiti ha portato alla «democrazia del pubblico», ovvero ad un assetto in cui i leader sono diventati il punto di riferimento primario per i cittadini.

Il primo, con cui viene inteso correntemente, è quello mediatico: per comunicare efficacemente con il pubblico i media debbono tradurre gli eventi in narrazioni, in stories, le quali abbisognano di un protagonista. Dunque è chiaro a tutti ormai il valore fondante delle leadership nelle democrazie moderne. Molto più ampio del passato. E ad ognuno lasceremo decidere quale tipo di leadership oggi eserciti questo o quel capo di stato. Evenienza che non è secondaria perché dalle caratteristiche dei leader possiamo anticipare alcune decisioni che prenderanno.

Senza girarci intorno se si alza Putin e dice che scatenerà una guerra, schermaglie tattiche a parte, hai un alta probabilità che sia vero. Un po’ di meno Trump che tende molto a spararle grosse per poi trattare. Ma è comunque capace di agire.
E diciamoci la verità un po’ meno credibili sono gli attuali leader europei che mostrano i muscoli in incontri e riunioni ma che effettivamente incutono molto meno timore dei due appena citati. Insomma se la vostra vita il destino della vostra nazione fosse realmente in gioco come potrebbe succedere anche a breve a chi di questi vi affidereste. A dei leader duri e concreti o a quelli fru fru arcobaleno coi carri armati elettrici.

Prima uomini e poi leader

Fedez

Ecco dunque l’esempio pratico di come la teoria delle leadership con cui vi ho intrattenuti sia non solo un lungo esempio scolastico ma anche la reale esibizione di cosa sta succedendo in Europa e nel mondo esattamente in questo momento. Per questo dovremo a breve anche noi decidere se affidarci a leader forti o a guappi di cartone. Perché fino a che la guerra è un ipotesi lontana possiamo giocarci sopra ma se rischiamo di trovarcela dentro casa servono scelte nette e persone in grado di compierle.

Ed anche se in piccolo lo stesso concetto vale per la politica nazionale dai suoi livelli più alti fino alle amministrazioni locali. Nei momenti decisivi si dimostra se sei un leader o un guappo di cartone. Se sai rispondere alle difficoltà contingenti con fermezza e scelte giuste. Oppure alla prima difficolta fai come diceva a Fedez il suo ex socio Luis Sal prendendolo in giro con voce scimmiottante: “chiamo la mamma, chiamo l’avvocato”.

Niente piagnistei

Ursula von der Leyen

Quando sei tu il leader devi avere contegno non adagiarti sul vittimismo e piagnucolare. E soprattutto un leader vero sa sempre come inquadrare quello che sta succedendo e soprattutto individuare i veri nemici. Cosa che non tutti evidentemente dimostrano di saper fare. E chiamano la mamma e chiamano l’avvocato. Perché non si può diventare leader se prima non si è uomini.

E io, scusate se lo dico, se mi volete portare in una guerra in cui ci si va ad ammazzare per un paese che non è europeo, fermo rimanendo il sacrificio eroico di tanti soldati già caduti, capeggiati dalla Gran Bretagna che non è più da tempo un paese europeo, uscita schifando la vecchia Europa, e alla cui testa di truppe variopinte ci siano Macron e la Von der Leyen vi rispondo come faceva Veltroni imitato da Crozza ai tempi d’oro: “Ma anche no”!