
Storie di cani scambiati per scarpe sportive e di empatia, con un occhio vigile a chi fa dell'ambientalismo solo un gargarismo. La critica ai "furetani”
Per mia sensibilità personale ho sempre diffidato di due categorie ben definite di persone: quelli che non si curano della vita degli animali e quelli che non amano gli alberi. In realtà diffido anche di quelli che non bevono vino e non sono inclini ai piaceri della vita ma questi sono gusti più specifici e superficiali.
Ho sempre pensato che se nella vita non hai sensibilità per certe cose, non ne hai per quasi tutte le altre. Dunque per me chi non si cura delle piccole forme di vita tendenzialmente non è mai veramente una persona rispettosa degli altri.
È come se si precludesse a priori una forma di sensibilità che in genere porta all’essere poco affidabili e tendenti all’egoismo.
Piccole regole da darsi

Di certo non è una norma ferrea ma fa parte di alcune piccole regole che mi do da quando ero imberbe un po’come faceva Leroy Jetro Gibbs il protagonista della fortunata serie tv Ncis. Per ogni avvenimento aveva una regola codificata che gli veniva dall’esperienza pregressa.
La numero 1 era “mai lasciare due sospetti nella stessa stanza”. Molto poliziesca. La 5 era “non si sprecano le cose buone”. La 7 era “essere sempre specifici quando si mente”. La 8 “mai dare nulla per scontato”. La 13 “mai coinvolgere un avvocato”. Che suona molto come quella dello scherzo a Mario Magnotta il bidello esasperato che urlava “mi iscrivo ai terroristi” quando gli volevano appioppare una lavatrice che non voleva e l’autore dello scherzo gli ripeteva stentoreamente al telefono “non mette in mezzo gli avvocati”.
La 36 pure era bella “se ti senti preso in giro probabilmente è vero”. La 42 da saggio “Mai accettare le scuse di chi ti ha appena pugnalato alle spalle” a questa purtroppo ho contravvenuto per poi pentirmene e la 45 “se fai un casino poi devi sistemarlo”.
Come la cartina di tornasole

Non amavo particolarmente la regola 51 che diceva “a volte hai torto”, ma solo per presunzione personale di avere sempre ragione. Alla fine, purtroppo, era giusta pure questa.
Ho le mie regole, diciamo forse un po’ fagianiformi, ma spesso mi hanno aiutato a giudicare meglio le persone e di conseguenza a fidarmi più o meno. Anche se la fiducia è sempre un’arma a doppio taglio, per essere sicuri non si dovrebbe concedere mai, si evitano delusioni.
Ma per me le inclinazioni su questi argomenti sono come una cartina di tornasole ti indicano sempre un risultato. Penso che se non sei sensibile rispetto alle altre forme di vita non lo sei nemmeno nei confronti di quella umana. Ti manca qualcosa, vivi male.

Ogni volta che vedo un gattino, un cane, un riccio ai bordi delle strade vittima di qualche impatto non mi viene mai da passare incurante, indifferente. Mi parte una serie di considerazioni filosofiche sulla caducità della vita terrena e di come possa essere interrotta così all’improvviso senza senso alcuno, mentre noi ci affanniamo a litigare per tutte le cose più inutili della vita. A perdere tempo prezioso. Ed ha ragione un mio amico, che lo scrive sempre sui social, non costa niente fermarsi e spostare quei corpicini inermi dalla strada per evitarne l’ulteriore ludibrio. Come una forma di omaggio alla vita appena scomparsa, di rispetto per questa.
Onore alle piante secolari

Lo stesso provo per le piante quelle secolari quelle che hanno impiegato decine, centinaia di anni per crescere a dispetto del tempo e delle condizioni. Quelle che ce l’hanno fatta potremmo dire con espressione attuale. Per poi essere tagliate, decapitate, capitozzate, abbattute dal fagiano di turno che con furia iconoclasta non si fa alcun problema a recidere decenni di vita di crescita spesso per far posto al vuoto o ancora più gravemente al cemento. Forse perché hanno anche il cervello riempito di cemento invece che di fiori che sbocciano.
Ho comperato la casa in campagna, in cui vivo oggi con delizioso piacere, perché su un sito immobiliare vidi in questa foto: la casa, tre pini antichi bellissimi e in mezzo a questi il profilo della cattedrale di Anagni come incorniciata tra i rami. Mai acquisto fu più giusto, vivo in una specie di paradiso nel quale, a dispetto delle rocce e delle pendenze, nel tempo ho piantato altre centinaia di piante forse migliaia.
Qualche tempo fa un fulmine potentissimo colpì uno di questi pini, il più vicino alla casa. La scarica bruciò praticamente tutti gli elettrodomestici possibili come a ricordare la potenza devastante della natura contro la tecnologia inutile. Il fulmine spaccò come uno squarcio tutta la corteccia da un lato, una ferita così evidente e macroscopica che chiunque veniva a casa mi ammoniva del pericolo incipiente che l’albero crollasse sulla casa e mi intimava di abbattere il colossale pino ferito.
Legno comunque vivo e forte

Ma a me non andava, se uno ad ogni ferita della vita dovesse abbattersi, come un albero, e dico letteralmente, allora sarebbe finita subito per tutti.
Allora comunque preoccupato per la stabilità del colosso e per le iettature continue chiamai un amico agronomo che aveva un semplicissimo strumento: una sonda creata appositamente che entra come un trapano molto sottile nel tronco e ne misura la durezza del legno.
E la misurazione disse che nonostante ferito il legno era forte, vivo e solido dunque scelsi di non abbatterlo e dopo averlo adeguatamente curato e concimato adesso troneggia ancora fiero dietro casa come a proteggermi invece che a minacciarmi.
Si lo so i soliti fagiani cinici staranno li a sperare che dopo questo articolo l’albero mi crolli in testa sfondandomi casa e potrebbe pure essere, ma il giorno che succederà intanto avrò goduto della sua bellezza fino in fondo. La casa si può sempre riparare.
Metafora della vita

Perché anche questa per me è una metafora della vita, dove la rinuncia preventiva ci conduce ad una vita debole e senza bellezza. E perché qualsiasi ferita se si ha la forza di farlo può essere curata. E forse tornare più forti di prima. Si lo so io ho un carattere ipertrofico e forse eccessivamente dominante, come mi ricordano spesso, ma proprio questa caratteristica mi ha dato molte gioie inaspettate nella vita.
Una volta la mia cagnolotta Nike, uno splendido corso di un cinquantina di chili, recentemente scomparsa per un raro ed assurdo tumore lasciando un vuoto incredibile, ha avuto un piccolo problema di salute. Aveva neanche un anno che gli si bloccano i muscoli masticatori, poverina non riesce a mangiare ha la bocca completamente bloccata. Allora subito esami di tutti i tipi ma nessun risultato dunque il verdetto: portatela in una clinica specializzata.
A Roma e nei dintorni ce ne sono due o tre grandi, ci indirizzano urgentemente ad una raccomandati dal nostro veterinario. Arriviamo con il canetto muto ma vigile in questo luogo ameno. Una struttura moderna piena di cristalli, acciaio, marmi che sembrava il Guggenheim.
Si corre a Roma per Nike

Ci sbattono in una stanza gelata col canetto che tremava. All’improvviso appare lui il megaprofessore proprietario della clinica che, in virtù delle amicizie comuni, si era scomodato personalmente. Arriva con un codazzo di assistenti in prevalenza donne, tutti mascherinati e cartellinati disposti dietro al professorone in formazione a coda di rondine.
Sembrava la stessa scena di Alberto Sordi che faceva “il Professor Dottor Guido Tersilli primario della clinica convenzionata con le mutue”. Mentre arrivavano mi è sembrato anche di sentire che la camminata stile cinematografico fosse accompagnata dalla stessa musichetta che era colonna sonora del film quella che faceva “ta tatarata”.
Il luminare osserva Nike, che per orrenda ignoranza tutti chiamavano “Naik” come la marca di scarpe invece che come la dea della vittoria greca. Fa un gesto della mano davanti agli occhi, tipo quelli che faceva Giucas Casella quando ipnotizzava le persone, si alza e dice: non c’è più reattività consiglio di abbatterla. A quelle parole Nike mi fissava con due occhioni spalancati sbarrati scodinzolava circolarmente in modo ossessivo come a trasmettermi queste parole: “Non lo sentite questo che è un cazzaro!”.
Il professorone magnanimo

E io che ho avito la sensazione proprio che il cane mi parlasse con quelle esatte parole mi rivolsi al luminare chiedendo lumi. Ma insistette sulla sua posizione magnanimamente offrendosi di sopprimerla seduta stante nella dorata struttura.
Al che io declinai gentilmente e per chi mi conosce il gentilmente era un espressione facciale che diceva “ma che cacchio stai dicendo” e dissi che preferivamo riportarla a casa, mentre facevo già l’atto di riprenderla per fuggire di corsa da quel posto. Al che lui mi guardò magnanimo e mi disse “per il consulto non mi dovete niente in virtù delle comuni amicizie”.
Io credo che mi sia scappato un vaffanculo seppur digrignato tra i denti che penso abbia compreso appieno perché la sua espressione mutò in sorpresa, mentre io fintamente proferivo parole di ringraziamento di circostanza. Affranti prendemmo la macchina e con la povera Nike che continuava a guardarci per dire di non abbatterla ci dirigemmo in un’altra nota strutturona a ridosso del raccordo anulare.
Non abbandonare le cose ferite

Lì al posto dei cristalli e dell’acciaio era predominante una boiserie anni novanta un pochino agè ma sempre lussuosa e dopo un leggera fila di tre ore in piena notte Nike venne ricoverata. Dopo due giorni di degenza e due pasticchette di cortisone era tornata come nuova. Si trattava di una miosite muscolare. Ha vissuto altri sei felicissimi anni con noi prima che il tumore ce la strappasse e sono stati sei anni bellissimi frutto solo della nostra testardaggine a non abbandonare mai le cose ferite. Mai fino all’ultimo.
Ci congedarono con un conto da pagare ma sempre molto cortesi. Ma furono tra i soldi meglio spesi della mia vita. Cosa sarebbe successo se avessimo abdicato. Se quell’albero lo avessimo tagliato e la cagnolotta soppressa. Avremmo perso mesi, anni di bellezza di emozioni, di vita. E per me sono un valore importante. C’è cosi poca bellezza oggi in giro che sprecarne anche un grammo è un delitto.
Mai abdicare subito

Ma non è opinione di tutti purtroppo . Ci sono orde di nuovi Attila che si aggirano per le città italiane. Ricordate il condottiero degli Unni detto anche “il Flagello di Dio” che mise a ferro e fuoco mezza Europa, Italia compresa. Dicevano “dove passa lui non cresce più l’erba” per enfatizzare la potenza distruttiva delle sue azioni militari e delle devastazioni dei territori.
Ecco i nuovi Attila somigliano all’originale solo per la potenza distruttiva e per non lasciare più in giro un filo d’erba, mentre per il resto sono molto più simili alla parodia di Diego Abatantuono che si chiamava “Attila Fratello di Dio”. Dove lui al grido di “imo sbabbari” marciava su Roma a capo di un manipolo improbabile di barbari.
Magari è cambiato l’abbigliamento, oggi viaggiano su costose macchine tedesche, indossano quei calzoni stretti alla caviglia e corti come se gli si fosse allagata casa. Una cinta di Hermes taroccata quella con l’H come fibbia che gli divide la panza incipiente contenuta in una camicia con le iniziali cucite in sartoria e con quelle giacche strette da pinguino, che se muovono un po’ di più le braccia si scuciono sulle maniche.
Degli Attila un po’ furetanizzati ma che condividono col temibile unno la caratteristica disboscatrice insieme alla assoluta mancanza di buongusto.
Cosa interessa al “furetano medio”

Tempo fa ho assistito al rifacimento di un parco che avevo creato io da sindaco. La prima cosa fatta è stata abbattere due alberi secolari che essendo piantati in epoca coeva alla costruzione della scuola erano soprannominati Benito e Claretta in onore dell’epoca edificatoria.
Ma il furetano medio non se ne interessa. Prende un tecnico comunale gli fa scrivere che forse sono pericolanti e li abbatte. Bastava usare lo stesso strumento di verifica che ho usato io, ma troppo complicato per menti semplici. E non ne pianta altri in sostituzione no perché mica servono gli alberi nei parchi, sono inutili, superflui.
Infatti appena arriva l’estate in quel parco non si può stare perché il caldo fa venire il coccolone, ai figli che giocano e alle mamme che aspettano. Ma oltre alla nota pratica è irritante la sola possibilità che monumenti naturali del genere debbano essere soppressi a piacimento del furetano di turno che ammanta di cattivo gusto non solo la propria esistenza, che non sarebbe di per sé grave, ma lo stesso cattivo gusto lo espande al popolo circostante.
Da parco a parcheggio

Infatti in alcune amministrazioni pare abbiano confuso la parola “parco” con quella “parcheggio” perché dove vedono un po’ di parco verde si sbrigano a realizzare progetti che hanno l’unica finalità di distruggere il parco per sostituirlo con un parcheggio.
Deve essere proprio un problema lessicale, secondo me terminologico. Forse non si riconoscono nella grammatica italiana o magari è solo mancanza di gusto e di buon senso. Un giorno decidono di fare un parcheggio per sbieco invece che dritto, un’opera di alta ingegneria diciamolo. Forse partorita addirittura dall’intelligenza artificiale. E che ci vuole butto giù un giardino ed una fila di ulivi senza nemmeno tentare di trapiantarli ed il gioco è fatto.
Oppure l’ingresso di un parco che con intelligenza caprina voglio trasformare in parcheggio è angusto? Che problema c’è butto giù una fila di platani secolari e faccio spazio. Così faccio danno dentro e fuori il parco.
E la nota più grave è che non è solo nelle nostre piccole realtà di paese proliferano questi fagiani neo attila ma anche nelle grandi città. Basta passare per Roma dove l’abbattimento quotidiano e continuo di centinaia di alberi è diventato una forma di nuova lotta moderna. Tra amministratori “illuminati” che ti propinano ogni giorno in tutte le salse un finto ambientalismo alla pariolina e cittadini esasperati che non comprendono questo scempio e che cercano di opporsi a questa nuova calata degli Unni travestiti da amministratori.
Finte ragioni e torti veri

“La gente ha bisogno di parcheggi”, ti rispondono, col piglio di quelli che fingono ragione pur avendo torto marcio. Si siamo d’accordo diciamo noi facciamo i parcheggi ma non si capisce perché questi debbano essere fatti al posto di parchi già esistenti e devastando ogni forma di specie arborea esistente.
Eppure molti di questi facendo sfoggio di una cultura da morti di social e raffazzonata li vedi citare Thomas Mann e la montagna incantata o meglio il signore deli anelli di Tolkien. Li vedi la ad immedesimarsi chi fa Gandalf, chi Frodo, chi il Re dei Nani di cui non mi sovviene il nome ma iniziava per D. Ah ecco si chiamava Durin.
Ma dimenticano tutti che quando la battaglia volgeva al peggio e tutto sembrava perduto nel Signore degli Anelli fu la foresta a sollevarsi e gli alberi a combattere a fianco degli uomini fino ad arrivare alla vittoria. Una allegoria della forza della natura che sostiene l’uomo che capirebbe pure uno studente delle elementari.
Il collutorio di un certo “ambiente”

Ma forse il furetano no. Il furetano pensa a tagliarli gli alberi perché può parcheggiarci il macchinone tedesco con i sedili in vera finta pelle comprato in seicento comode rate. Ed ogni volta che li guardo e leggo quei comunicati dove apoditticamente proferiscono la parola “ambiente” come fosse un mantra assoluto per poi procedere alla distruzione sistematica dello stesso mi viene in mente quel proverbio turco che oramai trovi in tutti i pizzi dei social.
Diceva così: “La foresta si stava restringendo, ma gli alberi continuavano a votare per l’ascia, perché l’ascia era furba e convinse gli alberi che, avendo il manico di legno, era uno di loro“.
Questo splendido proverbio turco ci racconta di come è facile, per gli uomini, cadere nel tranello di chi vuole soltanto approfittare di loro, spacciandolo per bene comune. Questo proverbio può ben essere applicato, ad esempio, a molte delle situazioni politiche, in cui gli elettori si lasciano trarre in inganno da false promesse, eleggendo rappresentanti che fanno tutto il contrario di quello che avevano fatto credere di dover fare. Ed ovviamente ogni riferimento a persone e fatti è assolutamente casuale.
È per questo che non mi fido di quelli che non si curano della vita degli animali e di quelli che non amano gli alberi. Perché se ti manca la sensibilità per queste cose non puoi averla per le altre.
Io non piango…

Avete mai ascoltato “io non piango” di Califano? Non è tra le più note ma per me è da sempre la più bella ed intensa. Ascoltatela. Inizia così:
Io nun piango pe’ quarcuno che more
Non l’ho fatto manco pe’ ‘n genitore
Che morenno m’ha ‘nsegnato a pensare
Nun lu faccio per un altro che more
Io nun piango quanno scoppia ‘na guera
Er coraggio de’ l’eroi stesi in tera
Io lo premio co’ du’ fiori de serra
Ma nun piango quanno scoppia ‘na guera.
E poi nella seconda strofa continua così:
Io piango quanno casco nello sguardo
De ‘n cane vagabondo
Perché ce somijamo in modo assurdo
Semo due soli al mondo
Me perdo nei suoi occhi senza nome
Che cercano padrone
In quella faccia de malinconia
Che chiede compagnia.
Ecco questo contrasto tra il non commuoversi davanti neanche alla morte di un caro ma emozionarsi di fronte agli occhi di un cane vagabondo l’ho sempre trovato straordinario. Ecco perché io di Califano un uomo seppur pieno di vizi e di difetti mi sarei fidato, mentre degli Attila chiacchieroni dei giorni nostri non mi fido e non mi fiderò mai. Perché dove passano loro non cresce più l’erba.
Chi sono i “furetani”

Post scriptum. Al fine di una maggiore comprensione traduciamo la parola “furetano” termine comune della nobile lingua anagnina che trae etimologia dalle parole fure (fuori) tano (allocato).
Una volta distingueva geograficamente coloro che abitando in campagna erano contraddistinti da minore cultura e rozzezza connaturata.
Oggi no, nelle nostre campagne vivono studiano si laureano baldi giovani pieni di gusto ed intelligenza. Il termine dunque si è trasformato in un luogo dell’anima che distingue le persone di buon gusto da quelle di cattivo gusto a prescindere dalla allocazione geografica. Per l’appunto i furetani.