La bicicletta (Il Duro del venerdì)

Luciano Duro

Narratore e Sognatore

di LUCIANO DURO

L’aveva vista nella vetrina, bella, nera con le parti cromate lucide che sembravano d’argento ed ancorato al parafango della ruota posteriore, subito dopo, il sellino di vitello, nero anch’esso, il porta pacchi. Robusta nell’intelaiatura così come lui voleva che fosse, da passeggio ma anche utile per il trasporto della spesa.

Doveva averla, ma costava troppo come ogni cosa bella, ben fatta e di valore. Era appena un ragazzo, ma si dava da fare per guadagnare qualche soldo al mercato, svolgendo piccoli lavori manuali o raccogliendo ferro vecchio.

Lavorò duro per tutta l’estate e mise da parte la somma necessaria per comprare quella bicicletta che era sempre lì in vetrina ad aspettarlo.

Non gli parve vero, montò su e cominciò a correre felice, correva e sognava; se la strada si inarcava ripida in salita era Bartali sulle Alpi, quando aveva fretta era il bersagliere in bicicletta che portava il messaggio al fronte. Pedalava con allegria, zigzagava tra la folla, come un equilibrista, suonando il campanellino e le persone si spostavano per riverire quel robusto ragazzo sulla bicicletta che era uno spettacolo solo a vedersi. La sera quando arrivava a casa, di nascosto, senza che sua madre se ne accorgesse, la conduceva sin dentro la cameretta, prima di dormire la lucidava, la oliava e sognava di volare in cielo, lui con la bicicletta, sempre insieme.

Il ragazzo crebbe, divenne uomo, i sogni, le aspirazioni, i desideri, affollarono la sua testa come uno stormo di uccelli in volo. Doveva pur avere un lavoro fisso, una moglie, dei figli, una casa? Era grande ormai, e un folto paio di baffi neri gli conferivano un aspetto ancora più maturo. La bicicletta era tuttavia sempre lì, fedele, uguale al primo giorno in cui con tanto entusiasmo l’aveva comprata, sempre lucida e sempre a punto, pronta a scattare come un nervoso puledro di razza, stimolato da un abile fantino, ma non era più in cima ai suoi pensieri, spesso la lasciava in giardino stretta da una catena al vecchio albero affinché nessuno potesse rubarla e non di rado preferiva uscire a piedi.

Trovò un lavoro nella grande fabbrica, incominciò ad avere uno stipendio e pensò che in fondo una motocicletta potesse essere più utile per lunghi viaggi e soprattutto più appariscente per conquiste amorose, quella bicicletta era un qualcosa da ragazzi che non potevano permettersi altro e fu così che trascurata ed incatenata all’albero, senza più una pur minima attenzione, restò dimenticata, d’inverno e d’estate, sotto al sole ed alla pioggia. Lei non disse niente, infatti, le biciclette non parlano; ma desiderava tanto che la usasse, per dimostrargli che ancora poteva essere utile, anche se si sentiva colpevole di non avere un motore. Sola e triste si avvolse nei ricordi, quando insieme correvano nel vento e andavano ovunque, ma le attenzioni dell’adulto erano ormai tutte per quella fiammante moto che aveva comprato e lei triste aspettava che lui si rendesse almeno conto che il tempo l’aveva invecchiata e c’era bisogno di una urgente e straordinaria manutenzione.

Trascorse ancora altro tempo, quel ragazzo era ora una maturo signore, aveva una moglie e due figli, la moto era una passione giovanile, aveva acquistato un’auto, una comoda e lussuosa “Fiat 1.100” bianca come il latte e quella bicicletta, per così dire, d’epoca, fu raccolta dalle amorevoli mani dei due giovani figli, la ricoverarono nel garage, le diedero una risistemata, una generosa oliata alla catena, una registrata ai freni, una lucidata alla vernice, cambiarono le gomme ormai secche e poiché la qualità era comunque buona ed il telaio solido, rinacque come nuova, in tutto il suo splendore, fiera di quell’aspetto di elegante signora della strada.

Nonostante tutto l’ uomo restò indifferente, non la degnava del pur minimo sguardo, eppure erano vissuti insieme per molti anni. Solo i due giovani, a turno, la prendevano per quel suo essere elegantemente “vintage” che tanto era di moda e lei ne fu molto gratificata.

Una notte, ormai vecchio, sognò di correre felice sulla sua bicicletta, parve che tornasse ragazzo, ebbe la gradevole ebrezza del vento nei capelli ed il vigore dimenticato di pigiare sui pedali, provò nostalgia per quelle sensazioni ormai perdute. Al mattino scese nel garage, la guardò con occhi tristi, come se si si parlassero, non aveva più la forza della gioventù nelle gambe, i capelli erano radi e bianchi, lei capì e dal fanalino anteriore sgorgò una goccia d’olio come una lacrima di commozione. Si fece coraggio, montò sul sellino, tenne saldo il manubrio e uscì per strada. Pedalò prima lentamente poi man mano sempre più forte, chiuse gli occhi, fu forse una strana illusione, ma si trovo a pedalare in cielo, sempre più alto, superò una montagna, varcò un precipizio, attraversò un fiume, viaggiò senza fatica e planò sopra città sconosciute. Dall’alto ricevette il bacio del sole, lo sentì caldo sulla pelle, liquido e leggero. D’improvviso le gambe vennero meno, era stanco e troppo avanti con gli anni, aprì allora gli occhi e si ritrovò in una strada di campagna, la bicicletta arrancava malamente, per cui fu costretto a scendere di sella e a portarla a mano, capì che non si può arrestare il tempo ma non si rassegnò, imprecò contro quella bicicletta che comunque non l’aveva mai tradito: “Sei ormai vecchia pesante e sorpassata, ed anche ridicola a vedersi”.

Lei non rispondeva, nessuno sa cosa possa pensare una bicicletta. Accecato dall’ira ed impotente ruppe il sellino e dette una pedata che divelse la catena, la prese a calci, frantumò i fanalini, il campanello e la dinamo, sradicò i pedali dal telaio, piegò i raggi e con il coltello tagliò le gomme, poi la scaraventò sul margine della strada e andò via urlando ed insultando la bicicletta su cui aveva percorso da giovane tutte le strade della sua vita. Si voltò e vide il camion di una ditta che raccoglieva ferro fermarsi per recuperare quel rottame ferroso. Calmatosi, non senza rimpianto tornò a casa, quale responsabilità aveva quella bicicletta? Che colpa aveva se le stagioni della vita corrono come un fiume in piena, se si è sordi al ritmo del tempo che vola? Non cenò e andò subito a letto, era provato dalla fatica e dal dispiacere, chiuse gli occhi e rivisse i momenti in cui l’aveva comprata e poi distrutta ed abbandonata. Sentiva tuttavia nitido, nella notte, uno scampanellio, non poteva sbagliare, lo conosceva troppo bene, era quello della sua bicicletta, si alzò, si affacciò alla finestra con la speranza che fosse tornata, ma non si è mai vista una bicicletta che si ricompone e torna a casa, come un cagnolino fedele dal suo padrone, eppure quel suono lo accompagnò per tutta la notte e nei giorni seguenti tanto che si recò sul luogo in cui era avvenuto il fattaccio. Avvertì forte il suono e mentre si avvicinava ancor più lo scampanellio diveniva assordante, guardò sul ciglio della strada, nel fossato, poi un raggio di vivida luce illuminò nell’erba un qualcosa di metallo lucido, era il campanello che continuava, lo raccolse, lo asciugò dalla rugiada mattutina, lo avvolse amorevolmente al fazzoletto come per proteggerlo, solo allora un dubbio si insidiò prepotentemente nella sua testa: quello scampanellio era della bicicletta o forse lo straziante lamento della sua anima?

Con la forza di un atleta corse per i campi senza mai fermarsi, fino a sparire tra la folta vegetazione. Lo cercarono a lungo, i figli, i gendarmi, gli amici ma di lui nessuna traccia. La leggenda narra di un vecchio uomo su una bicicletta, zigzagare, alto, nell’azzurro cielo in direzione del sole, seguito da uno stuolo di rondini.