Gli Invincibili muoiono solo per restare eterni (di V. Macioce)

Il 2018 si apre con le emozioni suscitate dalla poesia nelle parole del grande Vittorio Macioce. Il mito, gli eroi, la leggenda che si specchiano nello sport. Per un nuovo anno pieno di queste sensazioni.

Vittorio Macioce

Il Giornale - Caporedattore

Trecentosessantaacinque giorni fa. In piena notte salutammo l’arrivo dell’anno nuovo prendendo in prestito le parole di una delle più grandi penne che il Giornalismo abbia mai avuto da questo territorio: Vittorio Macioce raccontava Charles Bukowski e la sua notte di passaggio del ’71 in cui nacque il mito. 

Per noi sono stati dodici mesi densi di traguardi raggiunti. Il 2018 sarà ancora migliore: perché il 3 gennaio alle ore 18 Vittorio tornerà in Ciociaria e nel Palazzo Ducale di Atina racconterà la leggenda degli Invincibili. Il mito, la storia, la leggenda del Grande Torino. 

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di VITTORIO MACIOCE
Giornalista Scrittore
Capo Redattore Il Giornale

Un’antica leggenda narra che quando non ci sono abbastanza scrittori per raccontare tutte le storie, Dio si mette al lavoro.

Accadde anche alle 17.05 del 4 maggio 1949. Buio, nebbia, pioggia, una basilica a meno di 30 metri. Gli invincibili muoiono solo per restare eterni. Questo pensò Dio. Prese la macchina per scrivere e cominciò: Bacigalupo, Ballerin, Maroso, Martelli, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.


Le storie

La risposta, in fondo, è tutta qui. Ecco cosa può regalare il calcio alla letteratura. Storie per cui non serve scavare neppure tanto, ti arrivano lì con tutto quello che serve per costruirci intorno parole.

Ti serve l’eroe epico? Lo trovi. E trovi anche la passione, il colpo improvviso, la tensione e l’attesa, il tempo, il maledetto tempo che non passa o va troppo in fretta, e il fato, la solitudine e il coraggio, il flusso di coscienza, i ricordi, l’azione.

E non serve, per cercare una conferma, citare Osvaldo Soriano e Gianni Brera, Nick Hornby e Umberto Saba, Manuel Vásquez Montalbán, con la storia del suo centravanti catalano, e Vinicius de Moraes, con la sua ode per L’angelo dalla gamba storta, il fragile Manè Garrincha, e poi Pasolini (“Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”).

La palla innamorata di Jorge Amado, persino Leopardi, che nel 1821 scrisse un’ode dedicata a Carlo Didimi di Treia, una stella di un gioco chiamato “pallone“, che non era calcio, ma una sorta d’incrocio tra il volley e il tennis.

Eppure non basta. C’è qualcosa di più. Ci sono affinità più profonde che legano gli eroi del calcio ai personaggi della letteratura.

Correnti estetiche che si intersecano. Si è detto molto del legame tra George Best o Gigi Maroni e la Beat Generation. Spesso le “foglie morte” di Mariolino Corso ricordavano pennellate dadaiste, un’artista con la pancetta da ragioniere.

 

L’Odissea del Sarria

Lo sappiamo. La letteratura ha i suoi generi e le sue forme. E ogni genere ed ogni forma ha il suo protagonista. È così anche per il calcio. Basta saperlo narrare.

Lo aveva capito subito Brera, che ai poemi d’Omero aveva rubato gli aggettivi. E se il semidio Achille poteva essere Pelide o Piè veloce, il suo Gigi Riva meritava un “Rombo di Tuono”. Così sia.

E se mai c’è un eroe che può rappresentare il classico percorso dell’epica – l’esilio, il ritorno, il trionfo – perché non lasciare da parte un attimo Odisseo e pensare ad un centravanti furbo e spietato che vent’anni fa fece piangere il Brasile.

Faceva caldo quel giorno al Sarria, e i cavalieri in giallo e oro andavano a raccogliere un vittoria già scritta. Peccato, per loro, ci fosse l’eroe. Due anni lontano per un’accusa infamante (anche a lui come Ulisse fu assegnata la fama di baro). Torna ed è un’ombra. Poi l’illuminazione: uno, due, tre colpi e il valoroso avversario è finito.

E Paolo Rossi divenne, da Sao Paolo a Manaus, da Porto Alegre a Recife, il nome di un’influenza.

Fiori del Male

Lasciamo che Omar Sivori, detto il Cabezòn, indossi la maschera di Lazarillo de Tormes e si lanci in un’avventura picaresca.

Calzettoni scesi, tunnel irriverente, una faccia così da schiaffi da conquistare un principe o un avvocato.

E dove finisce la leggerezza sfrontata del Picaro, comincia la disillusione dei grandi eroi maledetti, gente che non ha nulla da invidiare alle vite romanzate di un Cellini o di un Caravaggio, figure che si lasciano alla deriva in un “viaggio al termine della notte”, che forse neppure Céline avrebbe avuto la forza d’immaginare.

“La nostra casa era di tre stanze – scrive Maradona nella sua autobiografia, Io sono El Diego – Si passava un cancello di metallo e lì c’era come un cortile di terra. La stanza da pranzo, dove si cucinava, si mangiava, si facevano le faccende, tutto, e le due stanze da letto… Otto fratelli, quando pioveva bisognava muoversi schivando i goccioloni. Non è che ci mancasse il lavandino, non avevamo proprio l’acqua. Per lavarsi tiravi l’acqua fuori dal bidone con le mani e te la passavi sulla faccia, sotto le ascelle, sulle palle, sulle caviglie, tra le dita: lavarsi la testa era più complicato, si capisce, e in inverno conveniva cercare di svignarsela”.

La conoscete la notte di El Diego. Quella cavalcata messicana tra le caviglie inglesi è scrittura sublime. La cocaina un fiore del male.


Storia di un antieroe

Non era poi tanto “sciagurato” Egidio Calloni. Lo aveva battezzato così Gianni Brera, con una perfida citazione manzoniana: “E la sciagurata rispose”.

Qualche gol lo segnava, tanti ne sbagliava, troppi, anche a mezzo metro dalla porta. Eppure dal dischetto era quasi infallibile, dal 1974 al 1982 ne mise dentro 11 su 12. Era un centravanti acrobatico, con la sfiga di stare in una squadra che quasi non aveva altri attaccanti.

Ma nella vita basta poco per ritrovarsi inadeguato. Le qualità c’erano. Il contorno era sbagliato.

Anni dopo i giornali lo scoprono venditore di gelati sul lago Maggiore. Eccolo, allora, l’anti-eroe del romanzo novecentesco. Eccolo l’inetto, il borghese che non sa essere borghese.

Lui, lo sciagurato Egidio, è Zeno Cosini. Brindiamo alla coscienza di Calloni. E con lui anche a quella di Comunardo Niccolai, vittima metafisica dei suoi autogol, di Marco Pacione, Darko Pancev, Luther Blisset, Don Chischiotte Renato e Sancho Panza Andrade, Luis Silvio, brasiliano caduto per caso a Pistoia nell’inverno dell’ 81 e da lì disperso, e di tutti gli “inetti” della storia del calcio.

 

La solitudine del portiere

Se il calcio ha un narratore questo non può che essere il portiere.

Lui non corre dietro la palla, la insegue con lo sguardo. Ne racconta le traiettorie.

Uomini che prendono il destino tra le mani e qualche volta se lo lasciano sfuggire. Ecco la storia di un portiere di trentacinque anni fa che, in un pomeriggio di fango e di pioggia, e di finta primavera, si lasciò scivolare tra le mani una sfera di cuoio bagnata.

Era il quarto minuto della ripresa e fu sconfitto. Perse uno scudetto all’ultima giornata, per un solo punto, e perse ancora, tre giorni dopo, anche una Coppa dei Campioni.

Cosa pensò quel portiere nel momento della sconfitta totale, in quell’attimo in cui un gesto consueto diventa imponderabile, fatale. E non importa se quel portiere di chiamava Sarti e quel giorno giocava con la maglia dell’Inter allo stadio Martelli di Mantova.

Il portiere come eroe da romanzo. Il rigore come tragedia, scena in cui il tempo si ferma, pausa drammatica, silenzio eduardiano, teatro di parola. E’ l’attesa. Quella che apre al romanzo. Gian Luca Favetto ci ha costruito intorno A undici metri dalla fine.

 

Periferie. 

Terzultima giornata, campionato di Eccellenza, quarantatreesimo del secondo tempo, sfida al vertice, calcio di rigore per il Brugherio, un gol potrebbe riaprire il torneo, in quei pochi secondi il portiere del Pergo D’Ale, Valerio Peraglie, trentasei anni, rivede tutta la sua vita: gli errori, i valori, gli amori, la sua identità.

Storia che ha punti di contatto con quella di Giuseppe Caruso, Rigore.

Qui siamo in serie D, ultima giornata, il Castelletto 72 punti, Romanese 71. E anche qui c’è un rigore, per la Romanese. Un giovane attaccante e un vecchio disilluso portiere si affrontano per una sfida che è anche un passaggio generazionale.

Tra il tiro e la fine va via la luce.

E si comincia a raccontare. Il romanzo di Favetto e quello di Caruso hanno un epilogo opposto, che è bene non svelare.

 

Estetica della non azione

Si può vivere all’ombra di una leggenda? Sì, basta avere lo spirito giusto: si può anche sognare la gloria, l’uscita coraggiosa davanti al nemico che avanza e restarsene pigri in panchina in attesa di un’improbabile occasione, l’evento che ti cambia la vita.

Massimo Piloni, riserva di Zoff, cinque campionati nella Juventus, dodici presenze, uno scudetto. Niente altro da rilevare.

Giancarlo Alessandrelli, riserva di Zoff, sei campionati nella Juventus, una presenza, quattro scudetti.

Tutti e due venivano da Ancona. L’unica volta che Alessandrelli giocò uno spezzone di partita prese tre gol. Sono loro gli eredi di Oblomov.

Tutt’altra storia quella di Pierluigi Pizzaballa. Lui giocava, discreto portiere, come ce ne sono tanti, non un mediocre, un buon professionista, con tanto di dignitosa carriera. La sua fama e il suo nome sono tuttavia legati ad un evento che non ha nulla a che fare con i campi di gioco.

La sua faccia, stampata sulle figurine Panini, non usciva quasi mai. La più rara delle foto rare.

Peggio di Prati e di Lodetti. L’assenza, il non esserci, l’ostinazione ad occultare il suo alter-ego virtuale lo rendono immortale. E se in realtà la figurina di Pizzaballa avesse ucciso il vero portiere, lasciando così l’album vuoto per correre in porta?

“Pizzaballa e il suo doppio” è un tema che meriterebbe la penna di Poe, Borges, Calvino, Dick o Buzzati.

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