
Binomio vincente nel nome del Sannio, un appuntamento da ricordare per apprezzare ciò che abbiamo e ciò che questo territorio vitivinicolo potrebbe esprimere
A prima vista il logo trae in inganno: SimoneEGiacomo. Chi sono? Due giovani viticoltori? I proprietari dell’azienda? Effettivamente è così ma decliniamo tutto al singolare, si chiama Giacomo e Simone è il cognome e si, è un giovane viticoltore del Sannio. Oggi la nostra storia parte da Castelvenere in provincia di Benevento, uno dei centri nevralgici della viticoltura campana e si intreccia in due giovani realtà che hanno creato un qualcosa di unico in una splendida serata di inizio estate.
Associazione Sapori Sanniti
Da tempo volevo parlare in questa rubrica dei vini di Giacomo Simone, azienda che seguo praticamente dalla nascita (circa dieci anni fa) e della quale ho potuto apprezzare le varie evoluzioni. L’occasione me l’ha regalata l’associazione Sapori Sanniti, un collettivo di sommelier, viticoltori e semplici appassionati di vino che organizzano serate a tema per promuovere e valorizzare l’enologia ed i prodotti tipici del Sannio.

Quando ho saputo della serata presso la cantina di Giacomo ho colto la palla al balzo e sono felice di averlo fatto perché la degustazione ha riservato qualche sorpresa e diverse conferme.
Ma Sapori Sanniti l’ha organizzata bene perché per parlare di viticoltura bisogna iniziare dalle piante e il percorso parte da Caterina, esperta di erbe spontanee, che ci ha accompagnato in un viaggio tra le piante di questo periodo, con un focus speciale su l’iperico, il fiore di San Giovanni, carico di simbologia e tradizione. Ma anche su tante altre erbe spontanee, spesso dimenticate, che raccontano un territorio da ascoltare e rispettare.
Viticoltura bio e sostenibile
La cantina di Giacomo è una dichiarazione di intenti alla sola vista, ciò che si vede è ciò che vuole rappresentare: modernità e tradizione, futuro e rispetto dell’ambiente. Nel bel mezzo delle vigne della sua tenuta a Castelvenere spuntano pannelli solari e un vigneto didattico dove ci fermiamo per il benvenuto e per una spiegazione del suo percorso da viticoltore.

Come molti ragazzi della zona Giacomo può fregiarsi del titolo di “nipote i quali nonni facevano il vino”, la sua idea di viticoltura però, pur tributando assolutamente la storia dei vitigni locali, va di pari passo con la tecnologia e le conoscenze che si sono accumulate negli anni: dunque agricoltura biologica certificata ed uso moderato di trattamenti in vigna, rispetto dell’ambiente e tanta biodiversità (erbe e piante appunto).
I vini e i prodotti tipici

La cantina è una sorta di museo di arte moderna, con alcuni quadri astratti alle pareti intervallate queste da pezzi di tufo (la struttura è proprio scavata nella pietra) elemento che è parte integrante della storia di Castelvenere famosa proprio per le sue storiche cantine tufacee ipogee. Dopo aver visto le fasi di vinificazione nei vari locali ci accomodiamo al secondo piano per una degustazione guidata dalla sommelier dell’Ais Benevento Nicla Galasso coadiuvata da Giacomo stesso.
Nel post degustazione una carrellata di prodotti tipici che abbiamo spazzolato senza la classica discrezione tipica dei sommelier, del resto davanti ai peperoni ripieni (che brutta parola in italiano!) non c’è decoro che tenga. E per questo si ringrazia Silvana, la mamma di Giacomo.
Conferme e sorprese
Diciamo che tutti i vini assaggiati si confermano per coerenza e crescita: coerenza perché i vini assaggiati sono identitari e facilmente riconoscibili. Crescita perché negli anni sono migliorati in qualità e si avvicinano sempre di più all’idea che Giacomo ha del suo percorso. Creta, blend di Agostinella, Malvasia, Falanghina: annata 2021, accattivante, elegante e con grande capacità di invecchiamento, ho aperto di recente una 2017 e ancora da grosse soddisfazioni.

Silvana Falanghina in purezza 2021 rientra nella categoria sorpresa ma è più una sensazione personale perché sono quasi sorpreso dall’emozione che ti dà una Falanghina che di mestiere fa la Falanghina. Spigolosa, sapida, acidità galoppante. Elegante sì ma nei limiti. Come giusto che sia.
Calamaio, la Camaiola. O Sannio Barbera, fate voi. Può la più classica delle espressioni territoriali diventare moderna? La Camaiola di Giacomo ci prova senza dimenticare mai la sua residenza. Calamaio, inchiostro, il colore della Camaiola locale è di un porpora unico che “tinge” con fierezza ma senza strafare. La modernità è questa, prodotti dal grado alcolico sempre più basso e i 13,5 gradi di questo vino sono, a mio modesto parere, la proiezione futura. Più Camaiola meno Sannio Barbera, stessi vestiti, meno strati.
e nonno Tore
Del 2021 è anche Nonno Tore, il vino dedicato al nonno, il progetto più ambizioso di Giacomo. “..Quando vinificavo con mio nonno e mio zio tutto si svolgeva con tanta cura e attenzione al clima, zero chimica, ricordo che i lieviti autoctoni ogni anno davano fermentazioni con tempi ed intensità diverse e per controllare mettevo sempre l’orecchio su ogni tino per ascoltare il rumore che producevano i lieviti, ogni volta un’emozione. Questo vino è dedicato a mio nonno Salvatore”.
La sintesi di Nonno Tore, passato e futuro che si intrecciano, Sangiovese e Aglianico i protagonisti, fermentazione spontanea e assenza di solfiti aggiunti. Annata 2021 appena uscita e già sono soddisfazioni, diamogli un lustro e berremo un capolavoro.
Barberosa come un brano punk

Last but not least, rullo di tamburi… Barberosa. La parola dice tutto, rosato di Barbera (o Camaiola fate voi…a me Camaiola piace di più). La conferma della serata, almeno per me. Perché è sempre dannatamente buono e non ci vogliono altre parole per descriverlo. Se le cercassi finirei per parlare di un’uva che non è fatta per fare i rosé perché ha poca spalla acida, perché non ha la struttura dell’aglianico. Ma questo Barberosa non lo sa e se ne frega perché in teoria non sarebbe un vino che primeggia per equilibrio ma quando lo bevo dico a me stesso “io me ne frego dell’equilibrio!” con la stessa veemenza che aveva il matto in Ricomincio da tre nell’epica scena con Troisi nel manicomio.
Io di Barberosa ne berrei a secchiate perché è sempre “dannatamente buono”, lo era dieci anni fa quando a Giacomo venne questa bizzarra idea di fare con la Camaiola un vino rosé, (primo in zona a farlo fortunatamente non l’ultimo) e lo è tutt’ora dopo la decima vendemmia. Barberosa è come pezzo punk con pochi accordi che ti si inchioda nel cervello da subito e forse in una calda serata di mezza estate è meglio così. Al rock progressivo penseremo il prossimo autunno. Cheers