
Una figura che ancora oggi sta scomoda nella sola casella che le toccherebbe. Il libro dato alle stampe in questi giorni. Che spiega perché l'ombra di Bettino Craxi incombe ancora sull'Italia a 25 anni dalla morte
«Passeport, monsieur…». Una voce in francese impastata dal sonno e una mano escono dalla garitta ricavata subito dietro il grande portale bianco ad arco. Sono di un soldato tunisino con i baffetti neri e l’aria annoiata, armato di pistola. Un secondo giovane baffuto in divisa beige segue la scena qualche metro più indietro, imbracciando un mitragliatore. L’ospite si trova sul territorio della Tunisia. Sta entrando in una casa privata della Tunisia. Eppure è come se varcasse un posto di confine, se penetrasse in una sorta di extraterritorialità riservata a pochi, controllatissimi privilegiati. Di più, è come se fosse ammesso in un altro Stato: il regno di Bettino Craxi.
Massimo Franco è uno dei commentatori politici più esperti nello stanzone del Corriere della Sera. Nelle settimane scorse ha dato alle stampe Il fantasma di Hammamet con cui spiegare perchè l’ombra di Bettino Craxi incombe ancora sull’Italia. E raccontare la parabola di uno dei politici più controversi a 25 anni dalla morte, avvenuta il 19 gennaio 2000.
Il deserto attorno a “certa gente”

Fermo immagine di un qualunque paese italiano in una qualunque domenica mattina. Il prete aspetta per dire messa e redarguisce il sacrestano, i parrocchiani vanno di spritz e quelli che sono andati a correre la mattina tornano a casa. Lo fanno sudati, caracollanti e vagamente sprezzanti rispetto a chi ha preferito l’aperitivo ed i conciliaboli calcistici. In un qualunque bar arriva “quello là”. Cioè il cittadino che ha avuto qualche problema con la legge.
Ce n’è sempre uno, in paese: furtarelli, sospetti vivissimi sul altri ed un paio di fogli di via dal campanile vicino. Entra, ordina un caffè ed all’improvviso sul bancone del bar cala un silenzio di piombo. Qualcuno si ricorda della moglie accampata ai giardini pubblici che gli dice sempre di stare lontano da certi tipi “sennò ci mormorano”. Qualcun altro quasi si strozza nell’ingollare tutto in sei secondi netti.
In pochi minuti si fa un mezzo deserto attorno ad un membro della società che ha sbagliato, ma che non ha il potere, lo shining storico per compensare i suoi errori. Non è diventato ricco, non ha scritto libri e non ha un’agenda piena di numeri di parlamentari. Ha solo le cazzate che ha fatto e la polvere sociale che hanno generato.
Non ha segnato la storia ai suoi piani alti pur bazzicandone i bassifondi, perciò perciò paria è e paria resta. Noi italiani siamo mediamente fatti così: ipocriti, hegeliani altisonanti senza saperlo. E pronti a gridare che il recupero sociale del prossimo è un valore purché avvenga ad un palmo dalle nostre terga.
Il revisionismo ipocrita

Salvo poi quando dobbiamo riabilitare i nostri personaggi pubblici sull’onda di un revisionismo storico che segue l’usta delle mille stagioni in cui decliniamo le rotte della Cosa Pubblica e della morale che le accompagna. Come con Bettino Craxi ad esempio, mezzo giubilato nei giorni scorsi niente meno che dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Diciamola e subito, l’ovvietà che cova in petto a tutti: certi paragoni sono impropri, a volerli prendere alla lettera. Lo sono perché se un laqualunque si prende la gogna sempiterna è proprio perché è un laqualunque, e Craxi non lo è stato. E’ stato un governante di rango altissimo e quel che ha fatto di illegale viaggia appaiato con quel che fece di importante, decisamente molto importante. Più della media dei nani odierni.
Ed è proprio questo il metro sbagliato, anche al netto di iperboli che vogliono solo provocare come quella di cui sopra: noi compensiamo.
Cioè, in presenza di personaggi pubblici noi, che siamo riverenti col potere e giolittiani per indole, usiamo le loro skill benevole per bilanciarne le peggiori. Poi, dato che viviamo in un Paese che la sua storia la riscrive con l’entusiasmo opportunista dei popoli che acclamano con la stessa foga con cui un minuto prima avevano crocifisso, prendiamo uno come Craxi ne ne facciamo un esule.
“Ladro io sì, ma ladri tutti”

Non un latitante con due condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito ai partiti più quattro processi in corso mentre dalla Tunisia eludeva i giudicati, ma un protomartire. Una vittima che all’epoca finì nel tritacarne di una stagione più grande di lui che di quello scenario era il Gigante Massimo e di un’offensiva giudiziaria bulla ed irrituale.
Non uno che aveva rubato e che aveva invocato l’attenuante per cui a rubare erano tutti, ma uno dei cui furti ci siamo scordati. Perché 30 anni di berlusconismo hanno guastato il rapporto con la magistratura. Perché in petto noi per chi ruba “e lo sa fare” coviamo ammirazione purché sia abbastanza in alto nella scala sociale da metterci in petto il magone dei ruffiani di razza.
E perché, essendo un popolo mediamente ignorante, semplicemente non sappiamo di cosa stiamo parlando, perché Mani Pulite a scuola non si studia. E perché chi di noi c’era ha fatto in tempo a fare la muta etica. Eccolo, il vero problema: non tanto riconoscere che anche al netto dei suoi reati Craxi fu un premier di caratura, ma non avere il coraggio di ammettere serenamente che non c’è caratura che tenga di fronte ad un reato accertato contro la Cosa Pubblica.
I soldi che ci mancarono

E che ogni lira sottratta all’epoca mancò da quel che a noi spettava: per curarci, per viaggiare, per avere più poliziotti e carabinieri per strada, per far studiare i figli al caldo e per pagare il giusto il nostro pane. E per maturare una coscienza critica tale da sorridere mesti a legge cose come questa.
”La crisi che investì il sistema politico, minando la sua credibilità, chiuse con indagini e processi una stagione. Provocando un ricambio radicale nella rappresentanza. Vicende giudiziarie che caratterizzarono quel burrascoso passaggio della vita della Repubblica”.
Non fu una crisi, ma una catarsi: il Pool prese le sue cantonate e mise più tacche sul calcio di quante non fossero proceduralmente ed eticamente lecite, ma quello resta un periodo in cui Legge ed Etica andarono appaiate come mai prima. Che affossammo subito dopo illudendoci che a riempire il vuoto lasciato dalla politica corrotta fossero arrivate persone incorruttibili.
Chiamare esule un latitante

Poi scoprimmo che parlare agli italiani significa parlare ai loro lati peggiori e facemmo sedimentare quella cosa fino ad oggi. Oggi che schiv(f)iamo lo sfigato piccolo criminale di paese e chiamiamo esule un latitante.
E che abbiamo nei suoi confronti il senso di colpa che provano solo gli emuli speranzosi ma irrealizzati. Oppure i complici.
Quelli che fanno genuflettere la Storia davanti ai loro difetti. E poi vanno a messa con lo spritz che sciaborda in pancia. Compiaciuti.