Le cose che non ho detto a don Andrea

Gli orari sempre più ravvicinati, le agende che scoppiano, il tentativo di incastrare tutto. Poi la tirannia del tempo che impone delle scelte. Ecco le parole che avrei dovuto dire al seminario nel quale ero relatore

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Don Andrea Pantone è un giovane parroco al quale il vescovo Gerardo Antonazzo ha affidato il compito di seguire l’ufficio delle Comunicazioni Sociali. È lui a coordinarsi con i giornalisti ed il mondo dei Media. Ha preso molto seriamente anche questa missione: non so se preghi per le anime dei Giornalisti ma periodicamente organizza un corso di formazione che cura la loro preparazione. Oggi nel Palagio Badiale di Cassino c’era il seminario “Il ruolo educativo della formazione nell’era digitale alla luce del messaggio di Papa Francesco”.

Chi non ha partecipato ha perso 5 crediti formativi. Ma soprattutto si è perso una straordinaria lezione del collega Igor Traboni: già direttore di Ciociaria Oggi, membro dello staff della comuncazione del Governatore del Lazio Francesco Storace, oggi in forza al quotidiano L’Avvenire.

Sarei dovuto intervenire anche io. Ma un impegno tassativo mi ha imposto di lasciare Cassino alle 12.30 in punto. E complice un ritardo generale nella partenza dei lavori, seppure a malincuore, sono dovuto andare via. Questo è ciò che avrei detto.

Quello che avevo da dire

Preliminarmente due cose. La prima: chiedo a don Andrea Pantone di avviare una causa di beatificazione per i Giornalisti sopravvissuti in questa provincia. In particolare per i corrispondenti, sia dei quotidiani locali che dei nazionali e delle agenzie di stampa. Quella che stanno svolgendo non è più una Professione ma una missione di fede: pagati 5 euro lordi a notizia, mediamente 2 euro e 50 centesimi rischiando ogni volta una querela ed una richiesta di risarcimento. È chiaro che nessuna persona sana di mente lo farebbe. Ma per noi questa è una missione. Almeno un’indulgenza parziale per meriti sul campo la meritiamo.

Igor Traboni

La seconda. Igor Traboni ha messo a nudo con una cifra lo stato dell’editoria in una provincia che spicca per analfabetismo funzionale e di ritorno, cioè per numero di persone che ha disimparato a leggere o se legge non comprende il contenuto. Quella cifra è 12, il numero delle edicole chiuse negli ultimi anni a Frosinone. Provo a consolarlo: virtualmente se ne sono aperte a centinaia, una su ogni telefonino. Ma il problema non è che siano morte le edicole: è che si sono dissolti i lettori. Leggere è diventato roba da èlite. E forse Papa Francesco ci ha spiegato perchè.

L’insegnamento di Francesco

Papa Francesco (Foto: Giuliano Del Gatto © Imagoeconomica)

Papa Francesco ci ricorda spesso l’urgenza di costruire una rete di bene. Ma per farlo, serve resistere a due tentazioni: il sensazionalismo e la rassegnazione. Il giornalismo, sia esso nazionale o locale, ha un compito educativo cruciale. Cosa scegliamo di raccontare? Quante storie vere, importanti, ma “poco vendibili” lasciamo da parte? E con esse, quanta speranza soffochiamo?

Raccontare il territorio non è solo fare cronaca: è aiutare a scoprire il bene anche dove si nasconde, persino nella fatica. Ma quanto spazio ha questo sguardo nell’informazione di oggi? “Nasciamo originali e moriamo fotocopie”, diceva il beato Carlo Acutis. E troppe notizie ormai sono copie senz’anima: riempiono spazi, non parlano a nessuno. Il risultato? Il lettore se ne va. E ha ragione.

Questo giornalismo storto e tossico non nasce da giornalisti cattivi o distratti, ma da una società in cerca costante di un colpevole. Un capro espiatorio su cui scaricare rabbia e frustrazione. E i giornali, ormai, sembrano offrire un catalogo quotidiano di bersagli pronti per l’odio di turno.

Odiatori seriali

L’intervento del vescovo Gerardo Antonazzo

Dove sono finite le notizie che raccontano il bene? A Garlasco si riapre un caso, e subito ci dividiamo in tifoserie: innocentisti contro colpevolisti, senza aver letto una sola riga degli atti. Ma tanto non importa. L’importante è avere qualcuno da odiare: l’assassino che nega, o quello mai trovato, o due gemelle, o magari gli inquirenti. Basta che ci sia un bersaglio.

Un ragazzo muore all’ospedale di Cassino e subito crocifiggiamo medici e infermieri. Nessuna attesa, nessuna verifica: solo sentenze. Magari è possibile che ci siano responsabilità. Ma non è certo. Quel che è certo, per me, è che quegli stessi medici mi hanno salvato la vita due volte in tre settimane: prima per un ictus, poi per una pancreatite acuta. E lo hanno fatto senza sapere chi fossi (perché in entrambi i casi erano medici di fuori), con competenza e silenziosa dedizione.

Il pubblico vuole un nemico. E noi glielo diamo. Ogni giorno. Ma Papa Francesco ci chiede altro. Non di nascondere la realtà o scrivere fiabe dove tutto è perfetto. Ma di raccontare anche le storie che costruiscono, che fanno crescere. Ci sono notizie che non si limitano a informare: educano, sollevano, danno senso. Perché allora ce ne vergogniamo? Perché le zittiamo, mentre esaltiamo solo lo scandalo e lo scontro? Dobbiamo ricordarci che esiste il peccato di omissione, oltre a quello compiuto con pensieri ed opere.

La testimonianza

Qui entra in gioco una parola chiave che Papa Francesco ci ha restituito con forza: testimonianza. Ognuno di noi è un testimone, anche quando non se ne accorge. Gli altri ci osservano, i giovani ci guardano, e la comunità si nutre dell’esempio, più che delle parole. E se – come dice il Papa – “la realtà si capisce meglio dalle periferie”, allora il giornalismo locale è il primo sguardo sul mondo reale, quello vero, fatto di margini, silenzi e quotidianità.

Ma il nostro sguardo è spesso strabico. Scriviamo per compiacere l’istinto, non per formare il pensiero. Non educhiamo: assecondiamo. Ci lasciamo guidare dalla pancia del lettore, invece di avere il coraggio di proporre una direzione. Ci siamo arresi a un motto da autobus: “non disturbare il conducente”.

Dove eravamo

Dov’eravamo quando un’intera generazione di servitori dello Stato veniva processata in nome di un reato ormai svuotato, come l’abuso d’ufficio, con oltre il 90% dei casi finiti nel nulla? Pronti a sbattere in prima pagina “Don Andrea indagato”, per poi relegare in sei righe, in fondo, il fatto che l’inchiesta fosse aria fritta. Avremmo dovuto denunciare ciò che accadeva e non assecondarlo.

Dov’eravamo mentre le mafie albanesi e nigeriane si prendevano pezzi di città, indisturbate? Ce ne siamo accorti solo il giorno in cui si sono sparati in via Aldo Moro, durante la passeggiata del sabato.

E quando centinaia di parroci si sono tolti il pane di bocca per sfamare chi non aveva nulla, perché non lo abbiamo raccontato? Però, quando uno su mille sbaglia, eccolo subito sbattuto in apertura, come fosse la regola. E così, se non racconti i novecentonovantanove giusti, quello sbagliato prende il posto di tutti.

I giornali hanno smesso di raccontare storie. Non perché non ce ne siano. Ma perché non ne sono più capaci. E mancano due generazioni di giovani a ricordarci che il nostro tempo è agli sgoccioli. Che la verità, per essere testimoniata, ha bisogno di voce. E di coraggio. Quelle due generazioni mancano perché non sprecheranno mai il loro tempo per 5 euro lordi ad articolo: loro già non credono più in questa professione.

Dove andiamo

Un giornalista locale che sa leggere i silenzi della sua comunità, che dà voce a chi non ne ha, che non si limita a pubblicare ma sceglie di testimoniare, compie già un gesto educativo. Forma coscienze, orienta sguardi, apre orizzonti. Perché la verità, quando passa attraverso le storie vere delle persone, diventa comprensibile, concreta, capace di cambiare. E il giornalismo – quello vero – non produce solo notizie: costruisce relazioni.

Oggi più che mai serve un giornalismo che si prenda cura della comunità. Che preferisca la sobrietà al clamore. Che dia spazio a storie che uniscono invece di dividere. Che sia, come dice Papa Francesco, artigiano di pace e di prossimità.

Un giornalismo che non si limiti a dire: “questo è accaduto”, ma abbia il coraggio di affermare: “questo merita di essere raccontato”.

Perché è da lì che si ricomincia a educare. È da lì che può rinascere la speranza.