Una donna spira al mercato e qualcuno filma e fotografa: la morte di una persona e la morte della solidarietà in un solo attimo
Siamo fatti così: metà sciacalli e metà carcasse. Predattori, non predatori, e prede al contempo. Facile individuare colpe singole, ma sono colpe collettive, solo che parlarne è più difficile. Lo sono perché quello che accade quando un gruppo di tipi aridi si mette a filmare lo spettacolo della morte invece di provare l’imbarazzato riserbo per una cosa così nuda e tremenda è roba di costume. Già, costume, e solo a pronunciarla, questa parola in un contesto estremo come quello della morte in pubblico, vengono i brividi.
Tanto per capirci e pescare random nel mazzo degli orrori, poco più di un anno fa un uomo filmò il rogo di un’auto a Casal del Marmo, a Roma, e dentro l’auto c’era il guidatore che bruciava: vivo. Quel 53enne morì dopo un mese di agonia. Tuttavia nei minuti esatti e terribili in cui le fiamme gli consumavano le carni tra grida da togliere il sonno altro non fu fatto se non filmare quella morte.
E commentare quando invece chiamare un’ambulanza o dare una mano sarebbe stato doveroso ed urgentissimo. E postare tutto sui social tranne poi avere una botta di raziocinio e togliere il video, non prima che venisse intercettato da Welcome to Favelas che lo depurò dal peggio e fece avviare un’indagine. Siamo fatti così: metà sciacalli e metà carcasse. Predattori.
La morte in diretta a Cassino
Negli ultimi 20 anni siamo stati educati a concepire la vita come un unico anelito di notorietà, come una sempiterna occasione di essere “più” di quel che siamo e siamo finti a filmare la morte in diretta invece di provare a sconfiggerla o chinare il capo quando ci sovrasta. Come a Cassino, dove una donna vittima di un malore fatale nei pressi del mercato di Piazza Nicholas Green è spirata in mezzo a cento bocche attonite ed a più di qualche occhio corrusco.
Occhio puntato sullo schermo dello smartphone a riprendere-fotografare il momento più intimo e terribile della vita umana: il momento in cui la vita finisce. Non in un letto, non dentro la cortina pudica di un ospedale o di una casa dove chi ti amò ti piange, ma in mezzo ad un mercato del sabato. E dentro ad una città che per fortuna è molto più del peggiore dei suoi errori.
E non c’entrano gli etimi della parola compassione, il senso civico, l’empatia istintiva di un essere che si picca di essere il dominus tecnologico di questo pianeta strambo dove pure i lombrichi sono meglio della media di noi. L’assenza di queste riserve è l’effetto, non la causa.
Filmo e chatto, dunque esisto
Effetto di un fenomeno che ci coinvolge tutti, e che poi, man mano che si stempera e spalma sulle singole condotte, assume i suoi toni. Toni sottilmente deprecabili, forti o grotteschi che sono i toni esatti della società. Di quella e delle declinazioni che essa va a fare sugli individui e sul loro personale vissuto. Sarà banale, ma più sei umano e più sarai capace di fare argine alla disumanità, ma il dato è che stiamo perdendo.
Perché oggi essere umani coincide con l’essere illusi, dotato del proprio bel copione, e l’essere cretini e solo effetto collaterale. E’ originario male comune, quello che ha portato una poveraccia morente a diventare soggetto da filmare e suo marito ad un ricovero in ospedale, è tara di tutti. E sta piantata dritta nel petto di un sistema complesso in cui il richiamo ad apparire è sempre più forte della tensione ad essere.
Un selfie, una mail di candidatura ad un reality. Un debole bullizzato, una capretta ammazzata a calci, un reel di nylon scosciato tra like e monetizzazione, un ring social dove alla fine tutti si illudono di detenere la verità solo perché, pur mezzi primati, hanno il mezzo per sciorinarla non sono altro che un’ affermazione. Affermazione compulsiva di un io minimal.
Essere eccezionali, ad ogni costo
Della parte di noi che sa di dover esistere solo se percorre il binario morto del riconoscimento da parte degli altri secondo canoni che la società vuole ed impone. Ovvio che la colpa sia singola, ancor più evidente come le responsabilità concettuali siano collettive.
Esistiamo nella misura in cui morbosamente scattiamo avanti alla mediocrità delle nostre vite e catturiamo l’attimo di un fatto eccezionale. Perché in quel momento siamo eccezionali anche noi e la stupidità delle nostre esistenze ci sembra più sopportabile. A volte accade che l’eccezionalità non sia un’alba ma un tramonto, tramonto della vita, ma a noi frega poco.
Non leggiamo e la nostra morale arretra, non crediamo e la nostra fede si stempera. Non dialoghiamo e nessuno più ci dice che abbiamo fatto una cazzata perché non c’è più un sistema che tiene a briglia i nostri eccessi.
Vivacchiare in mezzo ai pixel
Vivacchiamo, spersi col naso tuffato in uno schermo di lantanio e pixel in attesa del momento buono che darà sugo a giornate grigie e sempre uguali perché prive della solidarietà di gruppo. E siamo felici più quando è infelice il prossimo per cui provavamo invidia di quanto non sia lecito esserlo se accade a noi una cosa bella. Siamo bestie con diversi gradi di bestialità dentro e qualcuno di noi poi si salva.
Non perché sia mondo, ma perché sa battere la bestia nel solo modo che la uccide: guardando il prossimo sofferente come vorremmo che il prossimo guardasse noi quando soffriamo. Senza essere sciacalli e senza dover contemplare le carcasse dell’umanità che uccidiamo ogni giorno. Senza sognare di essere pessimi attori ma contentandosi di essere buone comparse. Con una mano sola, perché nell’altra ci teniamo lo smartphone.