Paolo non torna. Ma la verità sulla scuola comincia a parlare

Gli ispettori del Ministero dell’Istruzione certificano ciò che la famiglia denunciava: il disagio c’era, si vedeva, si poteva affrontare. Ma la scuola lo ha sottovalutato. Ora è il tempo della responsabilità, non della rimozione.

Antonella Iafrate

Se è scritto chiaro si capisce

Non importa il nome sulla scrivania. Non importa l’orario del primo avviso. Come non importa il titolo sulla carta intestata, né la firma sul fondo. Importa cosa non è stato fatto. Cosa è stato trascurato. Cosa è mancato, mentre Paolo Mendico, quattordici anni, lentamente spariva dagli occhi degli adulti, dissolvendosi in quella nebbia d’indifferenza che a scuola sa essere più letale della cattiveria.

Ora l’ispezione ministeriale è finita. E la sua sentenza non è ancora giuridica. Ma è già civile: la scuola ha fallito. Con ritardi, omissioni, sottovalutazioni ed una catena di responsabilità spezzata esattamente dove doveva essere più forte: nel dovere educativo.

Non hanno capito

Non stiamo parlando di un sistema scolastico imperfetto, ma di una scuola che ha visto, non ha capito e non ha agito di conseguenza. Che ha ascoltato e non ha compreso. Che ha ricevuto segnali e li ha lasciati decantare nel burocratese delle “non formalità”. Come se il dolore dovesse avere un protocollo, o l’urgenza una richiesta in triplice copia.

Gli ispettori del Ministero dell’Istruzione non si sono limitati a osservare gli effetti del bullismo. Hanno ricostruito i vuoti. Hanno guardato le carte, le date, gli scambi. Ed hanno tracciato un percorso di inerzia che ha accompagnato Paolo verso il suo ultimo giorno, senza che nessuno, tra gli adulti, capisse che c’era un treno in corsa che andava fermato.

Nessuna misura tempestiva. Nessuna attivazione formale del protocollo antibullismo. Nessun intervento concreto. Non per inerzia, non per cattiva volontà: ma perché il caso è stato sottovalutato. E quando sono arrivate le voci della famiglia, anche quelle — dice il fratello — sono state derubricate a “preoccupazioni”.

La frattura tra scuola e vita reale

Giuseppe Valditara

È qui che si consuma la frattura. Quella individuata dagli ispettori che il ministro Giuseppe Valditara ha mandato nella succursale della scuola superiore frequentata a Santi Cosma e Damiano dal piccolo Paolo. Perché non basta avere uno sportello d’ascolto finanziato con il PNRR. Non è sufficiente dire che “ci sono stati progetti di classe” o che “Paolo aveva superato il debito in matematica”. La scuola non è un catalogo di attività ma un luogo che vigila, protegge e interviene. Che legge la solitudine dei ragazzi, la traduce e ci mette dentro responsabilità adulta.

A scuola si entra bambini e si esce, si spera, cittadini. Ma se all’ingresso si è invisibili, se in aula si viene presi in giro per i capelli, per l’aspetto, per il modo di parlare, e se nel bagno della palestra si trovano scritte oscene e nessuno capisce che sono un campanello d’allarme e non solo offese da cancellare subito — allora no, quella non è più scuola. È un luogo che ha rinunciato alla sua funzione.

Cosa non è stato fatto

Il dirigente dell’istituto rivendica quanto fatto. È possibile che sia stato corretto. Come è possibile che il disagio nascesse da altri ambienti, altre situazioni, altre scuole e nell’ultima frequentata da Paolo sia solo esploso. Certo è che il Ministero ha individuato una falla nel sistema Scuola: ha individuato mancanze ed ha aperto procedimenti disciplinari. Ci sarà tempo per le difese, per le controdeduzioni, per il bilancino legale. Ma resta la sostanza: Paolo è morto e il sistema che doveva proteggerlo è rimasto immobile troppo a lungo.

Ora la giustizia penale farà il suo corso, e la Procura di Cassino ha già ordinato il sequestro dei dispositivi di alcuni docenti. Si verificheranno email, messaggi, protocolli attivati o dimenticati. Ma la verità civile è già emersa: qualcosa doveva essere fatto, e non è stato fatto. A prescindere da chi, da dove e da quando.

E non ci si può lavare la coscienza parlando di “assenza di denunce formali”. I genitori di Paolo sono stati ascoltati dagli ispettori, ore di colloqui in un’aula scolastica vuota. Il fratello, Ivan, ora dice una frase terribile: “Non ci restituisce Paolo, ma ci restituisce fiducia nelle istituzioni”. Come se per riavere uno, si debba prima perdere l’altro. (Leggi qui Non è “presto” per parlare di Paolo e non è tardi per battere il bullismo).

Cosa è mancato al sistema Scuola

Il dolore non può diventare prassi. Non può volerci un morto per riaprire i protocolli.
Non può servire un suicidio per capire che una scritta al bagno non è una ragazzata, ma un grido. E non è più possibile tollerare che la scuola si rifugi nella grammatica dell’autogiustificazione.

Non si tratta di trovare un capro espiatorio. Non si tratta di chiedere teste o vendette.
Si tratta di assumersi la responsabilità collettiva e individuale del fallimento di un modello, per impedire che diventi strutturale.

Perché Paolo non è l’unico. E perché la prossima volta non si possa dire: “Non sapevamo”.

Non importa chi. Non importa quando. Importa il cosa. E cosa è stato lasciato accadere, senza che nessuno, nella scuola, capisse che era arrivato il momento di dire basta.