
Assolti. Anche in Appello. I Mottola non sono colpevoli dell'omicidio di Serena Mollicone. La loro assoluzione non fu un abbaglio della Corte d'Assise di Cassino. Perché c'è differenza tra un colpevole ed il colpevole
Innocenti. Anche per la Corte d’Assise d’Appello di Roma. Non ci sono elementi concreti per dire che il maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, sua moglie Annamaria ed il loro figlio Marco, con la complicità dei carabinieri Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale, siano gli assassini della liceale Serena Mollicone.
Non fu un abbaglio della Corte d’Assise di Cassino assolverli due anni fa. (Leggi qui: Perché li hanno assolti: le fake sul caso di Serena).
La sentenza

La sentenza è stata pronunciata poco dopo le 17 di oggi pomeriggio- Accolta in un silenzio irreale dentro l’Aula di Piazzale Clodio a Roma. Visibilmente commossi, Franco e Marco Mottola hanno abbracciato gli avvocati. L’accusa aveva chiesto la condanna del maresciallo a 24 anni, di sua moglie a 22 anni, del loro figlio a 21 anni. Aveva chiesto l’assoluzione di Suprano per prescrizione, cioè sono passati troppi anni dai fatti a lui contestati; e per Quatrale, perché gli indizi non hanno raggiunto la consistenza di prova.
A caldo si dicono le cose che si pensano: quelle che si hanno sullo stomaco, senza pensarci sù. E così, a caldo Marco Mottola è andato via dal tribunale commentando “è colpa dei giornalisti”. Mentre Consuelo, la sorella di Serena Mollicone, dopo la sentenza ha detto “Sono molto amareggiata. Questa non è giustizia“.
Entrambi hanno la loro sacrosanta parte di ragione.
Perché è Giustizia

A distanza di vent’anni e dopo quattro sentenze ci sono dettagli che possono essere rivelati. Il luogo è una sala riservata dell’Hotel Ida a Ceprano: intorno ad un tavolo ci sono il senatore Romano Misserville, principe del foro, ed un ufficiale dei carabinieri. Il primo è stato contattato per assumere la difesa di Carmine Belli, il carrozziere arrestato e poi processato con la stessa accusa mossa oggi ai Mottola.
L’avvocato ha chiesto dodici ore per sciogliere la sua riserva e decidere se accettare. Tecnicamente non è entrato nel caso e potrebbe decidere di non entrarci. Chiede un colloquio con l’ufficiale che ha partecipato alle indagini. Il tutto avviene alla presenza di due testimoni oculari affinché ci sia chi può attestare la regolarità etica, morale e giuridica di quel colloquio. L’avvocato non chiede dettagli, non pone domande sulle indagini, nonostante da lì a qualche ora possa avere diritto ad entrare in possesso dell’atto d’accusa evita accuratamente di informarsi dal carabiniere.
Riportiamo gli orologi a quel giorno: Carmine Belli è l’unico indagato, nessuno muove accuse ai carabinieri, sono arrivati ad un certo punto delle indagini quando la Procura preferisce affidarsi alla Polizia di Stato e chiede il supporto dell‘Unità di Analisi del Crimine Violento. Che arriva ad una ricostruzione investigativa logica, dotata di una sua coerenza, degna di affrontare il vaglio di un dibattimento.
La differenza tra un colpevole ed il colpevole

Cosa vuole allora uno degli avvocati più brillanti nella storia del Foto di Frosinone e non solo? “Capitano, sono un avvocato ma ho dei valori. In virtù dei quali mi sono dato due regole: non difendo mafiosi, non entro in cause che possano creare imbarazzo ai carabinieri”.
Con l’eleganza e lo stile che gli appartenevano, il penalista ha capito che dietro l’esclusione dei carabinieri dalle indagini poteva essere qualcosa di imbarazzante. E che dimostrare l’innocenza della persona che chiedeva il suo patrocinio avrebbe allora potuto portare su un terreno che per scelta preferiva lasciare ad altri.
Con altrettanta schiettezza, l’ufficiale risponde “Avvocato, sono un carabiniere e mi hanno insegnato che si fa Giustizia individuando il colpevole. Non basta un colpevole. E come Carmine Belli ce ne sarebbero almeno altri cinque che potevano essere arrestati per le stesse ragioni. Noi non ci accontentiamo di un colpevole, vogliamo il colpevole”.
Fine del colloquio.
Al di là di ogni dubbio

Dopo il primo ed il secondo processo a Carmine Belli, una volta che le indagini sono ad un punto morto, va dato atto all’Arma dei Carabinieri di avere avuto il non comune coraggio di indagare su se stessa. Sono due marescialli a trovarsi di fronte a degli elementi che fanno dubitare del loro collega: indagano e consegnano tutto in Procura a Cassino.
L’indagine che porta a giudicare i Mottola è coerente, ha una sua solida struttura investigativa. Racconta una storia che può essere vera. Tanto quanto la storia che incastrava Carmine Belli.
Allora perché li hanno assolti? Per la stessa ragione per cui è stato assolto Belli. Possono essere ma non sono. Perché ci sono indizi che li accusano ma ce ne sono altrettanti che li scagionano. Anche la Corte d’Assise d’Appello di Roma ha dovuto ammettere che oltre il pregevole lavoro investigativo, andato al di là di ogni elogio, non c’è una sola prova. (Leggi qui: Quelli che volevano un mostro ad ogni costo).
Su questo ha ragione Marco Mottola: nella narrazione di questa indagine c’è stato pochissimo margine per il dubbio. Il che dà ragione a Consuelo Mollicone: c’è un assassino ancora in giro. O forse più assassini. Che potrebbero essere anche alcuni di quelli che in questi vent’anni sono stati giudicati ed assolti. Perché i processi hanno detto che ci sono tanti indizi ma non ci sono prove. Ed è questo a fare la differenza tra un colpevole ed il colpevole.