La vita è una danza swing Zadie Smith ci dà il ritmo (di V.Macioce)

Vittorio Macioce

Il Giornale - Caporedattore

di VITTORIO MACIOCE
Giornalista Scrittore
Capo Redattore Il Giornale

 

 

La maternità ti fa ancora più bella. Sono passati diciassette anni da Denti bianchi, il primo romanzo, scritto scommettendo tutto sul tuo talento, con l’incoscienza di chi non ha nulla da perdere e molto da sognare.

Quella ragazza di 25 anni è diventata saggia, in fretta, senza mai smettere di cercare la misura del proprio demone, ogni volta con la paura di scoprirsi un bluff, uno dei tanti impostori che girano nel circo della letteratura. Tutto quello che in fondo hai raccontato ne L’uomo autografo.

Adesso non ti importa più davvero tanto di stare lì a chiederti chi sei, padre inglese e madre giamaicana, Harvey e Yvonne, separati da quando avevi quattordici anni, con NW hai fatto i conti con i sobborghi del Nord Ovest di Londra, con le case popolari di Harlesden e di Willesden, con quello stare sempre in bilico tra troppe cose.

Adesso sai che «la vita accade», che si naviga a vista e se ti chiedono di snocciolare qualcosa sulla parola identità rubi una frase a Salman Rushdie: «Le nostre vite ci insegnano chi siamo».

Il tuo nome è Zadie Smith e non sospettavi che avresti vissuto così tanto tempo a New York con un marito irlandese, con Kat e Harvey, una figlia e un figlio. «Non ho mai pensato di diventare madre, non ho mai desiderato diventare madre, ma è successo. Oggi vorrei averli avuti prima». Non credevi neppure di insegnare letteratura all’università, di scrivere saggi critici sul New Yorker o su Harper’s Magazine o di essere un punto di riferimento di molte ragazze che bussano alla porta di una casa editrice.

La vita accade, appunto. E ci butti sudore, paure, rinunce, fortuna. La vita accade e ci balli sopra ed è questione di tempo, di ritmo e di orecchio e di gambe. Come qui, come in questo ultimo romanzo nato un po’ per caso: «Stavo scrivendo una storia di fantascienza, ma si stava complicando troppo e l’ho messa da parte». Swing time (Mondadori, pagg. 417, euro 22) che prende in prestito il titolo da un film del 1936 con Fred Astaire e Ginger Rogers.

«Se Fred Astaire rappresentava l’aristocrazia, io rappresentavo il proletariato, diceva Gene Kelly, e secondo questa logica il mio ballerino sarebbe dovuto essere Bill Bojangles Robinson, perché Bojangles danzava per il dandy di Harlem, per il ragazzino del ghetto, per il mezzadro: per tutti i discendenti degli schiavi. Ma per me il ballerino era un uomo venuto dal nulla, senza genitori né fratelli, senza nazione né popolo, senza obblighi di nessun tipo, e questa era proprio la caratteristica che mi piaceva».

Swing time ha qualcosa delle storie di E. L. Doctorow. «È morto quando aspettavo mio figlio».

Swing time racconta le avventure, e le disavventure, di chi sconta ed è benedetto da quella cosa che chiamiamo talento. C’è stato un tempo in cui ci si poteva scommettere. «Appartengo a una generazione cresciuta con l’idea di potercela fare. Se ci credi, se ti impegni, se lavori magari un tuo posto nel mondo lo trovi. Poi ti rendi conto che non è così semplice. Ti puoi anche disilludere o fare male, ma comunque cresci con la speranza che una breccia per la meritocrazia ci sia, esista. L’ultima volta che sono stata a Londra sono tornata nel mio quartiere e ho parlato con alcune ragazze. Quella breccia loro non la vedono. Non c’è più. Non ci sono più corridoi per gli outsider. Il mondo di sopra si è arroccato».

Zadie non sputa sulla Brexit e non si scandalizza. Qualche volta discute con i suoi colleghi che la liquidano come la sciagura delle scelte idiote di una classe medio-bassa frustrata e fallita. Zadie non avrebbe voluto la Brexit, ma cerca di capire. «Penso a mio padre, tipico bianco della working class, deluso da Blair e dai laburisti. Penso che se fosse ancora vivo forse anche lui avrebbe votato per la Brexit, per disillusione, per rabbia, per una sorta di autopunizione. E non riesco a gettare la croce addosso a quelli come lui».

Zadie ha smesso di fidarsi dei «buoni». Come in Swing time, dove svela l’ipocrisia di certe associazioni caritatevoli che fanno affari con le lacrime dell’Africa. È quel tipo umano che porta nel mondo la maschera di «Noto Attivista». «Sono stata spesso nell’Africa Occidentale. Mia madre ha sposato un ghanese. Ci ho vissuto. Ma c’è una falla nella cooperazione internazionale. Noi europei guardiamo le campagne pubblicitarie con i bambini neri che piangono. Ci mettiamo la coscienza a posto con la carità. Purtroppo molti soldi che vanno in Africa non restano lì, ma tornano nelle casse del Noto Attivista».

La narratrice di Swing time, la ragazza che racconta la storia, non ha un nome. È nessuno. Non è, non appare, si ritrae. Vive di luce riflessa. È la storia di un’ombra. Non è una scelta casuale o semplicemente stilistica. È una reazione e la colpa è un po’ dei suoi allievi. «I miei studenti parlano di sé in modo molto egocentrico. Sono convinti che bisogna mostrarsi sicuri, decisi, vincenti, senza lasciare spazio a crepe, dubbi o debolezze. Si presentano così anche sui social network. Scrivono frasi definitive e concetti sfacciati. Il più grande disonore è apparire sfigati. Non ero così alla loro età. Non spacciavo certezze. Mi viene da dire: fermatevi. Variate registro. Mi è venuto naturale scegliere allora per questo romanzo una voce sommessa, passiva, che non ha alcuna voglia di stare sulla scena, che si rintana, con l’abitudine smarrita di guardare quello che accade un po’ da lontano, senza pretendere di stare a tutti i costi sul palcoscenico. Una voce esiste anche nel buio».

Forse il prossimo romanzo torna a Harlesden, ma non in questo tempo. Va giù, alla ricerca di una bellezza perduta, una finestra sull’Ottocento. «Non so come dirlo, ma quando vivevo lì, in quelle case di cemento, respiravo comunque il passato del mio quartiere. C’è stato un tempo in cui l’orizzonte non era di casermoni grigi, ma case basse e colline e prima di diventare sobborgo e periferia era qualcosa. Qualcosa che in qualche modo è rimasto. Come quando dalla mia finestra vedevo l’ombra di alberi secolari, che stavano lì prima che il mondo intorno perdesse la propria identità. Qualcosa è rimasto in una parola del nostro gergo e resiste ancora adesso. I ragazzi per dire che vanno da un posto all’altro dicono treipi. Non sanno che è una parola antica che significa transumanza».

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