
Il 25 aprile, giornata di celebrazione per la Liberazione, il conflitto tra democrazia e fascismo in Italia. Sebbene la Costituzione affermi il carattere antifascista del Paese, la storia resta irrisolta. Un'analisi onesta del passato è necessaria per una crescita matura della società, fondamentale per evitare manipolazioni future.
Ogni 25 aprile va in scena la stessa recita: si celebrano la Liberazione, la Resistenza, l’antifascismo. Poi, puntuali, arrivano i distinguo: chi si inventa impegni all’estero per non rappresentare lo Stato, chi sollecita sobrietà per il concomitante lutto per la morte del Papa. Eppure, in questo rumore di fondo, restano pochissimi punti fermi. Due, per la precisione.

Il primo è scritto nero su bianco nella nostra Costituzione: l’Italia è un Paese democratico e antifascista. Non è un’opinione. È un dato di fatto. Non c’è spazio per nostalgie mascherate da revisionismi. Sandro Pertini lo diceva senza giri di parole: “La più scalcinata delle democrazie è sempre migliore della più efficiente delle dittature”. Non perché la democrazia sia perfetta, ma perché ti lascia il diritto di criticarla. La dittatura no: ti applaude mentre ti porta via, ti torturano, poi ti abbandonano da qualche parte.
Il secondo punto fermo, però, è più amaro: l’Italia è un Paese che non ha mai fatto davvero i conti con la sua storia. Non li ha fatti col fascismo – di cui serpeggiano ancora linguaggi, simboli, e vezzi. Non li ha fatti col terrorismo – che viene spesso trattato come un tabù, più che come un trauma collettivo. E non li ha fatti nemmeno con le vendette feroci del Dopoguerra, che Giampaolo Pansa ha raccontato in “Il Sangue dei Vinti” e che a molti piace fingere non siano mai esistite.
Questo rimosso collettivo conviene a tutti. Perché se lasci la storia in sospeso, puoi continuare a usarla. Puoi tenerla ambigua, puoi evocare nemici comodi, puoi alimentare lo scontro eterno tra “fascisti” e “antifascisti” senza nemmeno definire più cosa vogliano dire davvero quei termini oggi. Così si resta fermi. E si resta provinciali.

Già, provinciali: con lo sguardo corto, il fiato corto, la memoria corta. Troppo impegnati a cercare di “vincere” il dibattito su Twitter per capire cosa ci sta succedendo davvero. La democrazia, invece, è una cosa seria. È come l’aria, diceva qualcuno: non ci fai caso finché non manca. E se non impariamo a trattarla con rispetto e consapevolezza, finiamo a imitare chi la calpesta col sorriso. Gli Stati Uniti, nelle mani di un Caligola digitale, ci stanno insegnando qualcosa: basta poco per compromettere un’intera architettura democratica, basta un uomo solo, se nessuno lo ferma in tempo.
Il punto è che per crescere come Paese dobbiamo guardare la storia con gli occhi della storia. Non della politica, non del tifo. Ma questo richiede maturità. Richiede accettare che la verità non sempre fa comodo, non sempre conviene. Perché quando un popolo capisce davvero il proprio passato, smette di farsi prendere in giro. E forse è proprio questo che spaventa: un’Italia moderna, adulta, che non si lascia più manipolare.
Ecco perché il 25 aprile, al netto di tutto, ci serve ancora. Non come una ricorrenza imbalsamata, ma come una verifica. Per vedere chi siamo davvero. Per ricordarci da dove veniamo. E per capire, finalmente, dove vogliamo andare.