Non è follia cieca, ma istinto coltivato, amplificato, legittimato. La morte di un padre, colpito da un sasso su un pullman di tifosi, è l’esito di un Paese che confonde il tifo con la guerra e trasforma il disprezzo in sport nazionale. Perché c'è la convinzione che nessuno paghi mai davvero
L’odio non ha ragionamento: è istinto. È per questo che nel momento in cui i potenti vogliono spingere un Paese verso la guerra iniziano a toccare alcune corde ben precise: la paura dell’altro che vuole invaderci, la nostra superiorità di fronte alla sua barbarie, i bambini trattati senza compassione. Trucchi per innescare la reazione della gente e spingerla verso le armi.
Quando non si vive assediati, con un nemico che potrebbe bussare alle porte da un momento all’altro, il nostro naturale bisogno di odiare si sposta nell’assemblea di condominio, nei colori dell’avversario dentro uno stadio. Non conosci il tuo nemico: è una bandiera, in questo modo perde la sua umanità ed è più facile urlargli contro, colpire, accoltellare. Non ha senso ma ha una spiegazione. Per quanto cinica ma c’è.

Non c’è invece per quel sasso che ha ucciso domenica sera un uomo di 65 anni, padre, marito, lavoratore. Che stava su un autobus di ritorno da una partita di basket.
Non siamo davanti a un incidente. Siamo davanti a un omicidio per mano vigliacca, commesso da chi ha deciso che lo sport è guerra, il tifo è odio e l’agguato è un’opzione. L’odio organizzato non ha bisogno di motivi, gli basta un colore.
Ma in questa vita vissuta come se tutto fosse un videogioco, un padre di famiglia uscito su un bus per lavorare tornerà a casa in una bara. E mani imbecilli che pensavano fosse un gioco ora sono sporche per sempre di sangue.
Perché l’impressione è sempre quella che in questo Paese nessuno debba pagare, che tutto poi si possa aggiustare. Un morto ed un assassino non si aggiustano: restano per sempre.



