Quattro mattoni per abbattere gli schemi della nostra ignoranza

Intrappolati negli schemi, ci affidiamo a loro per molte delle nostre scelte. Lo scambiamo per istinto ma in realtà è altro. Che ci porta a fare figuracce come accaduto con Daisy Osaku. Ma c'è un modo pratico per superare quegli schemi

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

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C’è poco da fare: ragioniamo per schemi, lo confermano da decenni gli psicologi sociali. Per risparmiare tempo cerchiamo risposte e soluzioni negli schemi costruiti da secoli di esperienza tramandata da educazione e genetica. È per quello che sviluppiamo l’istinto. 

Ha contato sicuramente lo schema, nel povero vigilante dell’Apple Store a Torino che ha fermato la cliente di colore con le cuffiette che era andata a comprarsi un caricabatterie nuovo.

Scendeva per prendersi anche un altro paio di cuffie. Ma lui l’ha fermata sospettando che volesse andare via senza pagare. Peccato che si trattasse di Daisy Osakue: una campionessa, olimpionica e per giunta con il tesserino della Guardia di Finanzia nella quale presta servizio.

Lo schema del racial profiling

Foto: Michael Gaida © Pixabay

Si chiama “racial profiling” è il peso decisivo dei fattori razziali o etnici nelle scelte fatte dalle forze dell’ordine. Perché statisticamente il nero delinque di più, perché all’estero è l’italiano il mascalzone che non paga.

Senza addentrarci su una sterile discussione, restiamo ai fatti. Ed alla sostanza. Esattamente come ha fatto, nella stessa regione, Paolo Giuggia, ad della ditta di costruzioni Giuggia di Mondovì nata a fine ‘800 e con 70 milioni di ricavi nei bilanci.

Ha molti lavoratori di colore e nessuno vuole affittargli la casa. Anche lì racial profiling: l’imprenditore è andato al sodo. Se non gli affittano le case, lui compra un intero palazzo e lo affitta ai suoi dipendenti. Non lo fa per mecenatismo ma per concretezza: «Il Paese ha bisogno di questi lavoratori, deve cambiare la cultura dell’accoglienza».

Il modo più pratico di rompere gli schemi. 

Senza Ricevuta di Ritorno.