Tre carabinieri morti, diciotto tra poliziotti e militari feriti. Ma non è finita lì. Dietro l’esplosione di Suviana c’è una storia di povertà, sfratti e disperazione: quando anche la casa diventa una trappola. Serve una nuova civiltà del diritto.
Nessuna indulgenza, nessuna attenuante, nessuna giustificazione. Tre carabinieri morti, diciotto tra loro colleghi e poliziotti feriti: questo è un dolore che non si può sfumare. Chi ha premuto il grilletto della follia, chi ha trasformato una possibile colluttazione in una strage, ha colpito servitori dello Stato, padri di famiglia, cittadini che quella sera avevano solo un compito: fare il proprio dovere.
Ma se l’indignazione è sacrosanta, non può bastare da sola. Perché a ben vedere, in questa storia tragica ci sono solo vittime. Anche i tre fratelli, che hanno provocato l’inferno, sono il risultato di una spirale di disperazione che si è nutrita di burocrazia, di una Giustizia che arriva fredda e meccanica, e di un sistema che ha imparato a calcolare i debiti meglio di quanto protegga la dignità.
La casa come moneta di scambio

Tutto è cominciato da un prestito. Garantito — dicono — con firme mai apposte e con quei terreni che, per chi non ha altro, equivalgono alla vita stessa. Nessuna truffa, nessuna trappola sofisticata: solo la solita dinamica. Un debito non onorato, un’esecuzione forzata, la casa — bene primario, rifugio dell’anima — che da porto sicuro diventa moneta di scambio.
Qualche mese fa, a Cassino, un uomo che doveva essere sfrattato è uscito di casa come ogni mattina, è andato al bar a prendere il solito caffè. Poi si è ucciso. Non ha sparato, non ha lottato, non ha opposto resistenza. Si è semplicemente tolto dal mondo, senza lasciare dietro una goccia di sangue altrui. Eppure anche lui è stato una vittima.

Forse è arrivato il tempo di dire una verità semplice: la casa, una volta pagata, non dovrebbe più essere usata come garanzia per un prestito. E, ancor più, non dovrebbe mai essere pignorabile. Perché c’è una linea oltre la quale non si può andare: nessuno dovrebbe finire sotto un ponte o dentro un’auto solo perché ha provato, fino all’ultimo, a restare a galla.
C’è un momento in cui la barca affonda. Ma da quel momento si deve poter ripartire. Senza perdere tutto. Senza perdere sé stessi. E senza costringere altri a pagare con la vita il prezzo di un sistema che, troppo spesso, ignora il dolore finché non diventa tragedia. Come questa volta.



