La sentenza di Macerata che assolve l’accusato di violenza sessuale perché “lei sapeva a cosa andava incontro” è l’ennesimo processo alla vittima. Quando dire “no” non basta più, non è la legge a fallire: è la civiltà.
Ci sono sentenze che non fanno solo giurisprudenza. Fanno rumore. Feriscono. Come quella del Tribunale di Macerata, che ha assolto un uomo accusato di violenza sessuale. Per i giudici, la vittima – una ragazza minorenne – non era alla prima esperienza ed aveva accettato le attenzioni di quell’uomo, quindi doveva sapere “a cosa stava andando incontro”.
È come se i giudici avessero detto: se hai accettato un bacio non puoi dire no al resto. Non puoi ripensarci.
È stato l’ennesimo processo alla vittima. La solita distorsione culturale che confonde il consenso con la disponibilità, il corpo con un automatismo. I giudici hanno perfino sottolineato che la ragazza “non si era ribellata”, come se la paura avesse un protocollo d’azione o la paralisi non fosse essa stessa un urlo muto.

Eppure la scienza, la psicologia e il buonsenso lo spiegano da decenni: molte donne non gridano, non scappano, non reagiscono perché la paura le blocca. Non perché acconsentano.
E allora la domanda è semplice e brutale: cosa deve fare una donna per essere creduta? Stando a quella sentenza, la ragazza di Macerata avrebbe dovuto non sorridere, non baciare, non salire in auto, non fidarsi. Forse non esistere.
C’è di peggio. L’imputato viene assolto anche perché la vittima aveva “già avuto rapporti”, come se l’esperienza pregressa fosse un lasciapassare universale. L’hai data ad uno puoi darla a tutti. È la stessa logica di chi chiede alle vittime “com’eri vestita?”.

Non abbiamo ancora capito che a prescindere dai vestiti, un No resta un No.
Il consenso non è un dettaglio, la libertà non è disponibilità, la colpa non può essere fatta cadere su chi ha già subito. Perché fino a quando dire “no” non sarà sufficiente, non sarà la giustizia a mancare: sarà la civiltà.



