Il 19 novembre del 1969 un agente in servizio con la Celere morì centrato da un tubolare. E da allora nulla fu più come prima
Il distinguo che in quei mesi concitati del 1969 serviva a setacciare diritti e barbarie era già netto. Da un lato i sindacati confederali che facevano il loro dovere, dall’altro le schegge impazzite della galassia anarcoide e marxista, che quel dovere lo cavalcavano. E che lo facevano per imporre con la violenza idee legittime ma che appassivano appena le mettevi in punta ad un tubo Innocenti usato come clava.
Come per la caduta dell’impero romano il cambio di passo covava da tempo ed a step graduali. Tuttavia episodicamente impazzì tutto in maniera irreversibile il 19 novembre di quel 1969 nel quale i milanesi, in particolare, si erano già abituati ad una città in perenne subbuglio.
Cortei, manifestazioni, scontri, lacrimogeni, divise e mephisto a coprire facce arrabbiate. Quelli e le prime 7.65 e P38 maneggiate con la sicumera scema dei pivelli fanatici. A contrappuntare l’ira di una generazione dinamica ed ammattita, cioè a metà strada esatta tra ciò che è giusto sentire e la fanghiglia in cui tracima il giusto quando sceglie di affermarsi nei modi sbagliati. Contrariamente a quanto si possa pensare oggi le icone di quegli anni erano poche, ma forti.
I totem metropolitani di quel periodo buio
Le bandiere rosse, i faccioni di Lenin e la stella dell’Urss, gli eskimo lerci di gas lacrimogeno e le divise corrusche dei reparti Celeri. Antonio stava appunto con uno di quei gruppi, il Terzo, aveva 22 anni era era nato a Monfeforte Irpino. Una vita come tante, la sua, con il dovere pascolato dalla necessità: la nascita in una zona d’Italia in cui lavorare coincideva per lo più con l’indossare una divisa.
Poi la Scuola di Polizia nella vicina Caserta ed infine due assegnazioni: il Gruppo Mobile di Foggia e il Terzo celere di Milano. Giusto in tempo per vedere il Paese esplodere e per essere parte dei fumi sanguigni del botto.
Il clima di quegli anni lo aveva descritto bene il professor Biagio Cacciola di Frosinone. In quegli anni era segretario del Fuan, il fronte degli studenti universitari di destra. Lo aveva fatto cesellandone uno spaccato del periodo in cui anche a Roma la semente marcia di quel che accadde a fine anni 60 era germinato in un’Italia musicata dal fischio del piombo sputato a lacerare da cordite e percussori.
Cosa si innescò e il racconto di Cacciola
“C’era quel clima degli Anni di Piombo che ormai si conosce solo attraverso i libri e qualche film. Siamo nel 1977 e alla Balduina c’è un volantinaggio fatto da alcuni ragazzi di sinistra, denunciavano un agguato e dei colpi di pistola esplosi contro alcuni loro compagni a Monte Mario”. (Leggi qui: Cacciola, l’ideologo che volevano uccidere sia le Br che i Nar)
“Qualcuno ritiene che quel volantinaggio sia una provocazione perché la Balduina è in quel momento il fortino della Destra più radicale. Basta poco per innescare un nuovo scontro. E questa volta ci rimette la vita un ragazzo di Lotta Continua. La reazione della sinistra fu quella di dare l’assalto e di incendiare le sedi del Msi, del sindacato Cisnal a noi vicino, del Fuan e del Fronte della Gioventù“. Ecco cosa accadde, tra mille fatti infernali, dopo che Antonio vestì la divisa e con quella fu sepolto.
L’alba di un 19 novembre “qualunque”
Ma andiamo in dissolvenza e torniamo alle prime luci di quel 19 novembre 1969. Le ore peggiori per chi sa che dovrà onorare una mission muscolare come quella dei Reparti Celeri sono quelle che l’alba la precedono. Lo aveva già ricordato bene uno che a Via Larga con Antonio c’era: Giovanni Magliocca. “Per noi poliziotti era l’ennesimo sacrificio mattutino, l’ennesimo servizio iniziato alle 3 del mattino per stazionare nei punti nevralgici del percorso dei dimostranti”.
“E l’ennesimo servizio d’Ordine Pubblico affrontato con scarso e stanchissimo personale costretto a rientrare di buon ora alla mezzanotte di ogni giorno per riuscire in servizio alle 3 del mattino. Per fronteggiare una marea d’imbecilli imbevuti di odio ideologico. Pronti a prendersi la propria giornata di gloria, in onore alla militanza, per qualche scaramuccia con ‘i servi dei padroni’ che eravamo, poi, noi poliziotti”.
Poco più di un anno prima, dopo gli scontri di Valle Giulia, uno come Pier Paolo Pasolini aveva messo a fuoco una realtà amara che prevaricava torti e ragioni. E che indicava nei poliziotti i veri proletari che si scontravano con chi del proletariato aveva abbracciato le istanze ma senza genesi sociale.
Ad ogni modo a Milano e quel giorno era in atto uno sciopero generale indetto da Cgil-Cisl e Uil e guarda caso era proprio contro il caro affitti, croce meneghina ed italiana ricorrente. Grana grossa che proprio in questi mesi sta tarantolando le notti della ministra Anna Maria Bernini.
Tre cortei, e due non erano pacifici
In scia con le sacrosante rivendicazioni dei “confederali” c’erano i marxisti-leninisti e gli anarchici: fine simile e mezzi barbari, con lanci di pietre e muso più duro verso gli agenti. Davanti al Teatro Lirico la miccia corta di quel che covava da due anni arrivò alla polvere nera e scoppiò l’inferno.
Il racconto di Magliocca non concede sconti di equivoco sui fatti davanti al teatro. “Fu in quel momento che una delle militanti maoiste, fingendo di essere stata urtata da uno dei mezzi di scorta, si buttò a terra gridando: la polizia carica! Quello doveva essere il segnale del proditorio attacco alla polizia. Fu l’inizio dell’inferno”.
Due versioni extragiudiziarie: la polizia caricò e successe la tragedia o i manifestanti innescarono la carica e successe la tragedia. La tragedia successa fu il solo denominatore comune. Perché le tragedie sono piene solo della loro natura e se ne fottono della dietrologia dopo che hai chiuso una bara.
Ad ogni modo il mezzanino del teatro fu bersagliato da lacrimogeni, poi il reparto Celere arretrò di 300 metri e dalla “ridotta serrata” lanciò una carica. Antonio morì in quella carica, mentre i giovani del Movimento Studentesco arrivavano a fare barriera assieme agli altri due gruppi. I mezzi della polizia presero la configurazione “a carosello”. Con quelle serpentine strette cioè, parallele o incrociate, per braccare, circondare ed isolare i gruppi all’assalto. Fu così che Antonio Annarumma morì in meno di 20 secondi.
Il giallo del tubolare lanciato
Venne colpito alla testa da un tubolare del diametro di 49mm scagliato contro la camionetta. Un lungo pezzo di metallo cavo che la testa gliela sfondò e penetrò nel cranio per 20 cm circa.
Poco dopo, all’interno della Caserma Sant’Ambrogio arrivarono gli agenti del Reparto di Senigallia reduce da Bergamo. Antonio era già morto e in quei minuti decine di poliziotti pensarono di aggiogare la vendetta alla giustizia. Erano furenti, piangevano e correvano a scatti verso i graduati, ma alla fine desistettero. Quel che accadde dopo non conta, non nel disegno generale di un decennio malato la cui incubazione era finita con il cadavere di quel 22enne steso a terra in una pozza di sangue e materiale cerebrale colata brada sull’asfalto.
L’Italia si era ammalata definitivamente ed avrebbe scontato per molto tempo quel morbo con cui una società imperfetta veniva osteggiata da una sua parte che sconfessò il Diritto.
Vendetta, giustizia e quasi linciaggio
Accadde che Mario Capanna venne quasi linciato a funerale, che la verità giudiziaria fiutò l’omicidio ma non ne seppe trovare gli autori materiali.
E che le ghenghe al cui interno si additavano gli autori dello stesso proclamassero altre verità non dolose su quella morte. Ma soprattutto accadde che Antonio Annarumma morì in strada e che da allora le nostre strade non furono più le stesse che avevano percorso i nostri nonni. Perché quel pomeriggio di 54 anni fa ci svegliammo tutti in guerra.
Tutti intruppati. Pronti ad elevare le nostre ragioni e seppellire i torti degli altri. Con il piombo di anni bui e con una storia che dovremmo tramandare di più per scongiurare che si ripeta. E perché lo dobbiamo ad Antonio e a tutti gli altri che morirono sui fronti di una battaglia di idee.
Senza capire che con le idee ci devi fare solo ponti, somme e sintesi, se non vuoi ritrovarti con un mazzo di fiori davanti ad una tomba.